C’è un verso di una canzone di Franco Battiato che conosciamo tutti e che fa così: “Questo secolo oramai alla fine / Saturo di parassiti senza dignità / Mi spinge solo ad essere migliore / Con più volontà”. È il canto liberatorio che riempie il teatro Arena del Sole di Bologna alla fine dello spettacolo A place of safety, della compagnia Kepler-452, ed è l’unica concessione all’emotività di una messa in scena che non cede nemmeno a un briciolo di retorica.
Più i tempi sono feroci e il mondo scivola in una crepa, più viene la tentazione di salvare tutto quello che c’è di buono e di bello su un’arca, proprio come nel mito. Ma coloro che sono sull’arca, i buoni, sono pieni di dubbi, alla ricerca di qualcosa. Dopo il successo del Capitale, che portava in scena la lotta degli operai del Collettivo di fabbrica Gkn, i registi Nicola Borghesi ed Enrico Baraldi hanno deciso di raccontare cosa succede lungo la rotta del Mediterraneo centrale attraverso le storie degli operatori delle organizzazioni non governative (ong), accusati dalla propaganda politica di essere “taxi del mare” o “vicescafisti”, ragazzi e ragazze che hanno deciso di imbarcarsi per prestare soccorso a chi rischia di morire lungo la traversata del Mediterraneo.
Che cosa sono andati a fare per dieci anni volontari, attivisti e umanitari da tutta Europa in mezzo al mare? La risposta sembra scontata: a soccorrere migliaia di persone che sono state abbandonate in mare dai governi, lungo quella che è considerata la rotta più mortale del mondo. E invece lo spettacolo dei Kepler-452 ci propone diverse letture, portandoci su quel confine di mare in cui decine di ragazzi cosmopoliti e poliglotti si sono specchiati per vedere la ferocia di un continente che predica la libertà e l’uguaglianza, ma in realtà pensa a garantirle solo a chi nasce in occidente. Il Mediterraneo, il nostro mare, è un’enorme fossa comune, e questa è soprattutto la storia dei sommersi, dei morti, del tentativo di non cancellarli dalla storia.
I buoni sono pieni di dubbi e di crepe: c’è Floriana Pati, un’infermiera che decide di lasciare il posto fisso in ospedale, perché si rende conto che il servizio offerto dalla sanità non mette più al centro le persone. S’imbarca quindi sulla Life support, la nave umanitaria di Emergency, per ritrovare il senso della sua professione. C’è poi Flavio Catalano, un ufficiale della marina militare italiana che, annoiato dalla sua carriera di impiegato, una volta in pensione decide di unirsi a Emergency, “perché quei ragazzi gli stanno simpatici”.
E ancora Giorgia Linardi, che già da studente universitaria si appassiona alle primavere arabe, si trasferisce a Lampedusa e poi s’imbarca, contro il volere dei suoi genitori, fino a diventare la portavoce di SeaWatch. E poi José Ricardo Peña, l’elettricista, il pagliaccio di bordo, statunitense di origine messicana, figlio di immigrati latinos negli Stati Uniti. Anche lui ha lasciato una “vita normale”, in cui non era contento, per vedere la frontiera da vicino.
C’è ovviamente il capomissione, Miguel Duarte, originario del Portogallo, ricercatore di fisica, che ha cominciato a occuparsi di soccorso in mare con la nave tedesca Iuventa, la prima a essere accusata di collaborare con i trafficanti nel 2017 in un processo che si è concluso con l’assoluzione di tutti gli imputati, nel 2023. E infine Nicola Borghesi, attore e regista teatrale, che si imbarca per un mese per capire cosa succede davvero a bordo, anche se non ama il mare e si sente molto a disagio in quella situazione.
Ognuno di loro ha messo tutto se stesso nel soccorso, lasciando a casa vite comuni, affetti, amicizie. Per loro questa attività è stata un richiamo irresistibile, una soglia tra il senso e il non senso, la ribellione a un’ingiustizia di cui non si voleva essere complici.
All’inizio gli umanitari scelgono quella strada per rendersi conto con i loro occhi, a volte per sentirsi utili o per dare un senso alla loro vita, perché vogliono capire. Ma poi si ritrovano intrappolati in una battaglia ideologica che inghiotte le loro vite. Da una parte sono criminalizzati dalla propaganda politica e rappresentati come conniventi del traffico di persone, dall’altra sono definiti “eroi”.
Gli umanitari, i volontari, gli attivisti rimangono schiacciati insieme alle persone migranti in un discorso falso sulla migrazione, o nell’ipocrisia di un mondo in crisi e in disfacimento che cerca delle figurine da santificare. I Kepler non fanno sconti: guardano dritti alle contraddizioni di un atteggiamento troppo empatico o sensazionalista, criticano anche la “ragione umanitaria” che rischia di nascondere un fondo di white saviorism, il complesso del salvatore bianco, che è un’altra forma di oppressione e di supremazia.
In nessun posto si vede meglio che cos’è l’Europa, se non dai suoi confini. Il teatro che questa compagnia mette in scena in maniera innovativa, ma anche ormai riconoscibile, è un linguaggio del presente, e non fatica a trovare una prospettiva narrativa nella realtà e negli attori non professionisti, che sono anche i protagonisti reali della storia e che si autoraccontano con una grande capacità di disvelarsi.
Prima che il peggio arrivasse, decine di ragazzi si sono spinti ai confini dell’Europa per vedere meglio, avere una visione d’insieme: hanno soccorso molte persone e le loro storie, hanno visto molti altri scomparire nella fossa comune che nessuno vuole più guardare. Ma soprattutto hanno capito che una delle conseguenze di questo atteggiamento polarizzato verso le persone in viaggio ha prodotto un’anestesia diffusa: l’incapacità di vedere e sentire gli altri. Una palude nella quale ancora siamo immersi.
Questo articolo è tratto dalla newsletter Frontiere.
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