Si cominciano a precisare i danni causati dall’offensiva lanciata dal presidente statunitense Donald Trump contro l’Usaid, l’agenzia per lo sviluppo internazionale, e tutte le forme di aiuti all’estero, su cui molti paesi africani facevano affidamento.
Trump ne ha parlato anche il 4 marzo, nel suo primo discorso al congresso, in cui ha elencato tra i successi del suo primo mese e mezzo di presidenza il taglio di “8 milioni di dollari usati per promuovere gli lgbtqi+ nella nazione africana del Lesotho, di cui nessuno ha sentito parlare” (quest’ultimo commento non è stato gradito dalle autorità del piccolo regno dell’Africa meridionale); di “10 milioni per la circoncisione maschile in Mozambico”; di “1,5 milioni per la fiducia degli elettori in Liberia e 14 milioni per la coesione sociale in Mali”; di “250mila dollari per l’innovazione dell’attivismo climatico vegano locale nello Zambia”; “42 milioni per il cambiamento sociale e comportamentale in Uganda”. Questi sono solo alcuni esempi di tagli alle spese considerate inutili da Washington (gli altri li trovate nella trascrizione del discorso fatta dal New York Times).
Quello che Trump ha evitato di dire è che tra i programmi dell’Usaid che sono stati cancellati ci sono iniziative molto importanti, che riguardano la lotta alla poliomielite, alla malaria, alla tubercolosi e soprattutto all’aids (sempre dal New York Times ha una lista dei progetti costretti a chiudere).
Tra i pezzi della copertina di Internazionale di questa settimana, un articolo del sito Bhekisisa, dedicato alla salute, racconta che le organizzazioni sudafricane per la lotta all’aids beneficiarie dei fondi dell’Usaid, all’interno del programma Pepfar, hanno ricevuto delle lettere in cui gli veniva comunicata la revoca definitiva delle sovvenzioni. Il Pepfar è un fondo lanciato nel 2003 – anno in cui l’aids uccise più di tre milioni di persone in tutto il mondo – per combattere la malattia nei paesi dove si registravano i tassi più alti di contagio da hiv.
Dal 2003 il Sudafrica ha ricevuto dal Pepfar circa otto miliardi di dollari, di cui circa 440 milioni per l’anno in corso. Questi soldi erano spesi per i test dell’hiv e per sopperire alle carenze degli ambulatori gestiti dal governo di Pretoria (che copre l’83 per cento dei costi per la lotta all’aids), aiutandoli a somministrare le terapie antiretrovirali e per la tubercolosi. Anche i fondi statunitensi destinati al Lesotho servivano in buona parte per la lotta all’aids.
In generale queste notizie hanno suscitato pessimismo per un futuro in cui milioni di persone probabilmente moriranno per le conseguenze dei tagli agli aiuti. Tra l’altro, non solo gli Stati Uniti hanno preso questa strada: per coprire le maggiori spese per la difesa, il Regno Unito ha deciso di tagliare più di 7 miliardi di euro di aiuti all’estero; la Francia intende diminuirli di 2,1 miliardi di euro.
“In tutta l’Africa subsahariana c’è allarme per decisioni che potrebbero ostacolare la lotta alle future pandemie, aggravare le carenze dei sistemi scolastici e pregiudicare le attività delle ong impegnate contro la malnutrizione”, scrive la giornalista Marie de Vergès su Le Monde Afrique. “Per quanto scioccante, questa situazione dovrebbe farci riflettere sui difetti del sistema degli aiuti internazionali, che alimenta la dipendenza e non definisce mai con chiarezza quando arriva il momento di interromperli”. De Vergès cita alcune recenti dichiarazioni dell’ex presidente keniano Uhuru Kenyatta, che ha esortato i leader africani a smettere di fare affidamento sul denaro dei contribuenti statunitensi. “Invece di piangere, dobbiamo chiederci: cosa faremo per aiutare noi stessi?”, ha detto Kenyatta.
Uno strumento di controllo
Negli ultimi tempi si è quindi riacceso il dibattito sulla dipendenza dagli aiuti stranieri, che spesso non sono così neutri e disinteressati quanto vorrebbero apparire. A sedici anni dall’uscita del libro La carità che uccide dell’economista zambiana Dambisa Moyo, convinta che gli aiuti servissero soprattutto ad alimentare la corruzione nei governi beneficiari, oggi molti analisti riconoscono che questo sistema porta benefici, ma crea anche delle gravi storture.
L’opinionista keniano Patrick Gathara in un articolo su Al Jazeera, ripreso questa settimana su Internazionale, rivolge una critica ampia al sistema degli aiuti. Secondo lui, è illusorio pensare che i paesi donatori siano mossi semplicemente da uno spirito umanitario. Senza negare l’onestà e la buona fede di chi lavora nel settore, Gathara descrive gli aiuti come “uno strumento di controllo geopolitico” che serve a mantenere, anziché eliminare, le disuguaglianze globali. Nel corso della storia, sono serviti ad alcune potenze per portare avanti progetti di stampo imperialistico nel sud del mondo.
Questo non succede solo in Africa: in un articolo su Jacobin, Carlos Cruz Mosquera analizza l’imperialismo “informale” dagli Stati Uniti nei paesi dell’America Latina e nei Caraibi, fatto di metodi soft come le offerte di aiuti e gli interventi umanitari. Gathara invita quindi a guardare oltre la tragedia e il dolore causato dai tagli per ripensare il sistema delle relazioni internazionali, il commercio globale e i meccanismi finanziari che svantaggiano i paesi poveri.
Sul sito Semafor l’imprenditore ghaneano Gregory Rockson ritiene che sia “essenziale passare da un modello insostenibile di aiuti infiniti a uno che favorisca l’imprenditoria locale e l’autodeterminazione”. Il creatore della startup mPharma, che ha l’obiettivo di migliorare l’accesso e la qualità dei farmaci nel continente, suggerisce che l’Africa avrebbe bisogno di meno donazioni e più investimenti.
Per il politologo Ken Opalo, della Georgetown university, autore della newsletter An africanist perspective, “i paesi a basso reddito possono e devono aspirare a liberarsi dalla dipendenza dagli aiuti. L’assistenza allo sviluppo è ovviamente benvenuta. Ma dev’essere sempre al servizio degli obiettivi di sviluppo dei paesi beneficiari e non deve mai cercare di sostituirsi allo stato”. Secondo Opalo non sarà semplice per i paesi poveri fare a meno dagli aiuti perché molti governi non hanno la capacità fiscale: le loro economie sono troppo piccole e non hanno accesso al credito.
Non bisogna neanche sottovalutare gli ostacoli politici: i paesi donatori vogliono mantenere la loro influenza, mentre le élite di quelli poveri hanno interesse a continuare a scaricare su altri le loro responsabilità. È possibile che molti posti di lavoro nel settore umanitario andranno persi, e che i servizi probabilmente peggioreranno. Eppure, secondo Opalo, bisognerebbe avere la pazienza di insistere sul cambiamento: “Il futuro dev’essere diverso, e migliore”.
Questo testo è tratto dalla newsletter Africana.
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo.
Scrivici a: posta@internazionale.it
Sorgente ↣ : L’Africa riflette sulla sua dipendenza dagli aiuti – Francesca Sibani