Una delegazione israeliana a Doha per i negoziati sulla tregua a Gaza

Il 10 marzo una delegazione israeliana è partita per Doha, in Qatar, dove parteciperà a dei negoziati indiretti sulla fragile tregua nella Striscia di Gaza, dopo che Israele ha interrotto le forniture di elettricità nel territorio per fare pressione su Hamas.

Prima dell’avvio dei negoziati, Israele ha bloccato l’unica linea elettrica di Gaza, che alimenta il principale impianto di desalinizzazione dell’acqua del territorio. Hamas ha reagito denunciando “un ricatto inaccettabile”.

“Questa decisione mette inoltre a rischio gli ostaggi, che saranno liberati solo in caso di applicazione dell’accordo di tregua nella sua interezza”, ha avvertito il 10 marzo Abdul Latif al Qanua, il portavoce di Hamas.

Lo stesso giorno la Germania ha chiesto a Israele di “sbloccare immediatamente l’ingresso degli aiuti umanitari a Gaza”.

L’accordo di tregua, raggiunto grazie alla mediazione di Stati Uniti, Qatar ed Egitto, è entrato in vigore il 19 gennaio.

Durante la prima fase dell’accordo, che si è conclusa il 1 marzo, Hamas ha restituito trentatré ostaggi israeliani, otto dei quali morti, mentre Israele ha rilasciato circa 1.800 prigionieri palestinesi.

La delegazione israeliana a Doha è guidata da un alto funzionario dello Shin Bet, il servizio di sicurezza interna, e dal mediatore incaricato degli ostaggi, Gal Hirsch. Secondo l’esercito israeliano, a Gaza ci sono ancora 58 ostaggi, 34 dei quali morti.

I negoziatori di Hamas, guidati da Mohammed Darwish, sono arrivati a Doha il 9 marzo.

Lo stesso giorno l’inviato statunitense per gli ostaggi, Adam Boehler, ha espresso il suo ottimismo su un accordo per il loro rilascio, definendo i recenti colloqui diretti con Hamas come “molto utili”.

I disaccordi riguardano la prosecuzione della tregua. Hamas chiede l’applicazione della seconda fase dell’accordo, che prevede un cessate il fuoco permanente, il ritiro completo israeliano da Gaza e il rilascio di tutti gli ostaggi.

Israele, però, punta a una proroga della prima fase della tregua fino alle metà di aprile e, per passare alla seconda fase, chiede la “demilitarizzazione totale” della Striscia di Gaza e la restituzione di tutti gli ostaggi.

“Israele continua a chiedere modifiche all’accordo originario”, ha affermato Hamas in un comunicato.



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Argentina, le alluvioni a Bahía Blanca causano sedici morti e decine di dispersi

Almeno sedici persone sono morte nelle alluvioni, causate da una tempesta, che hanno colpito la città portuale di Bahía Blanca, in Argentina, mentre decine di persone risultano disperse, hanno affermato le autorità il 9 marzo.

Tra i dispersi ci sono due bambine di uno e cinque anni, strappate dalle braccia della madre da un improvviso innalzamento del livello dell’acqua.

Il presidente Javier Milei ha proclamato tre giorni di lutto nazionale. “Il governo farà tutto il possibile per aiutare le comunità colpite”, ha dichiarato in un comunicato.

Secondo il sindaco di Bahía Blanca, Federico Susbielles, le alluvioni hanno causato danni per circa 370 milioni di euro.

Il 7 marzo sulla città, che ha 350mila abitanti e si trova nella provincia di Buenos Aires, sono caduti circa quattrocento millimetri di pioggia nel giro di poche ore, la quantità che di solito cade in un anno.

Il fiume Maldonado ha straripato sommergendo vari quartieri.

Secondo i dati ufficiali, quasi mille persone sono state costrette a lasciare le loro case.

“Questo disastro è chiaramente legato al cambiamento climatico”, ha dichiarato Andrea Dufourg, responsabile delle politiche ambientali a Ituzaingó, un’altra città nella provincia di Buenos Aires. “Non abbiamo altra scelta che investire nelle misure di adattamento, preparando le nostre città e i nostri cittadini a una moltiplicazione degli eventi estremi”.

Nel dicembre 2023 Bahía Blanca era già stata colpita da una violenta tempesta che aveva causato tredici morti.

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Perché il caso Diciotti è così importante – Annalisa Camilli

La scorsa settimana ha fatto discutere la decisione della corte di cassazione di accogliere il ricorso di un cittadino eritreo, ribaltando la sentenza della corte di appello di Roma del 13 marzo del 2024 che gli aveva negato il risarcimento dei danni subiti quando è stato trattenuto a bordo della nave della guardia costiera italiana “Ubaldo Diciotti ”, dal 16 al 25 agosto 2018. Era stato prima negato l’attracco e poi lo sbarco di un gruppo di 177 migranti soccorsi nel Mediterraneo centrale per undici giorni, per ordine dell’allora ministro dell’interno Matteo Salvini.

Il ragazzo eritreo, che nel frattempo ha ottenuto lo status di rifugiato nel Regno Unito, faceva parte di un gruppo di 44 persone che nel dicembre 2018 aveva presentato una richiesta di risarcimento allo stato italiano. Per la vicenda, il tribunale dei ministri di Palermo (una sezione specializzata del tribunale ordinario competente per i reati commessi dal presidente del consiglio e dai ministri nell’esercizio delle loro funzioni) indagò l’allora ministro Salvini con l’accusa di sequestro di persona, ritenendo illegittimo il trattenimento dei profughi sulla nave militare.

Il caso fu poi passato al tribunale di Catania per competenza territoriale e la procura chiese l’archiviazione. Il tribunale dei ministri la respinse chiedendo al senato l’autorizzazione a procedere per il leader della Lega, ma la giunta parlamentare per le autorizzazioni a procedere votò contro e impedì che il procedimento penale contro Salvini andasse avanti.

“Abbiamo incontrato un gruppo di una quarantina di eritrei a settembre del 2018, subito dopo il loro trasferimento a Rocca di Papa, dopo il blocco della nave Diciotti”, racconta Giovanna Cavallo, coordinatrice dell’associazione Legal aid, che ha seguito il ricorso dell’uomo insieme alle associazioni Baobab experience, Medu e A buon diritto.

“I migranti sembravano spaesati e non si erano resi conto pienamente di quello che avevano subìto. Li abbiamo informati sui loro diritti e hanno deciso di fare ricorso per ottenere un risarcimento in sede civile”, continua Cavallo, che spiega di essere rimasta in contatto telefonico con la maggior parte di loro.

Qualche settimana dopo la firma delle procure agli avvocati, la maggior parte dei migranti ha lasciato l’Italia per raggiungere familiari e amici in paesi europei ritenuti più accoglienti, ma il processo è andato avanti fino alla sentenza di appello del 2014, che ha negato il risarcimento. Ma la corte di cassazione ha dato ragione all’eritreo escludendo che “il rifiuto dell’autorizzazione allo sbarco dei migranti soccorsi in mare protratto per dieci giorni possa considerarsi quale atto politico sottratto al controllo giurisdizionale”.

Per la corte “l’azione del governo, ancorché motivata da ragioni politiche, non può mai ritenersi sottratta al sindacato giurisdizionale quando si ponga al di fuori dei limiti che la costituzione e la legge gli impongono, soprattutto quando siano in gioco i diritti fondamentali dei cittadini (o stranieri), costituzionalmente tutelati”.

Inoltre, secondo i giudici della cassazione la responsabilità civile per i danni subiti dai naufraghi a bordo della nave Diciotti non può essere esclusa per il fatto che il senato avesse negato l’autorizzazione a procedere nei confronti del ministro, perché in questo caso sono stati attaccati “diritti della persona inviolabili e come tali non comprimibili né suscettibili di minorata tutela di compromesso”.

Infine, la sentenza richiama l’Italia all’obbligo di soccorso in mare secondo le convenzioni internazionali, e stabilisce che “lo stato responsabile del soccorso deve organizzare lo sbarco nel più breve tempo ragionevolmente possibile (convenzione Sar, capitolo 3.1.9), fornendo un luogo sicuro in cui terminare le operazioni di soccorso. È solo con la concreta indicazione del place of safety (pos), e con il successivo arrivo dei naufraghi nel luogo sicuro designato, che, infatti, l’attività di search and rescue (ricerca e soccorso) può considerarsi conclusa”.

“Questa ordinanza di risarcimento è un precedente importante”, commenta Giovanna Cavallo, secondo la quale si può mettere in discussione la legittimità di assegnare porti di sbarco molto lontani, come avviene ormai con il decreto Piantedosi per tutte le navi delle imbarcazioni umanitarie, o anche di trasferire i migranti in Albania per molti giorni come è avvenuto a tre gruppi di richiedenti asilo a partire dall’ottobre 2024. “La cassazione chiarisce che i naufraghi devono essere portati a terra più velocemente possibile e non possono essere privati della libertà personale per giorni come è avvenuto a tutti i richiedenti asilo che sono stati trasportati in Albania negli ultimi mesi”.

Il giurista, esperto di diritto del mare, Fulvio Vassallo Paleologo è della stessa opinione: “La valutazione sulla tollerabilità del trattenimento a bordo della nave soccorritrice potrebbe comportare conseguenze rilevanti sia sulla ammissibilità dell’assegnazione di porti sicuri di sbarco ‘vessatori’, eccessivamente lontani dal luogo del soccorso, sia sulle ipotesi di trattenimento ai fini dell’identificazione, nel caso dei naufraghi soccorsi da navi militari italiane in acque internazionali, e poi bloccati a bordo per giorni, in attesa di un successivo trasferimento verso i centri di detenzione previsti dal protocollo Italia-Albania”.

Il 7 marzo, dopo la pubblicazione dell’ordinanza, la presidente del consiglio Giorgia Meloni ha criticato la corte sui social network definendo la decisione “opinabile e frustrante”, mentre il vicepremier Matteo Salvini ha parlato di una decisione “vergognosa”, di “un’altra invasione di campo indebita”. Alle reazioni del governo ha risposto con una nota la prima presidente della corte, Margherita Cassano, dicendo: “Le decisioni della corte di cassazione, al pari di quelle degli altri giudici, possono essere oggetto di critica. Sono invece inaccettabili gli insulti che mettono in discussione la divisione dei poteri su cui si fonda lo stato di diritto”.

Questo articolo è stato tratto dalla newsletter Frontiere.

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