Pechino e Washington giocano con il fuoco della guerra – Pierre Haski

Come impedire una guerra quando due potenze si convincono che lo scontro sia inevitabile? È il caso degli Stati Uniti e della Cina, avversari dichiarati e allo stesso tempo legati da una molte relazioni. Mentre l’Europa è concentrata sulla minaccia russa, Washington è ossessionata dall’ascesa di Pechino.

La risposta del ministro del commercio Wang Wentao ai nuovi dazi introdotti da Trump è di una brutalità sorprendente: “Se gli Stati Uniti insisteranno nel portare avanti una guerra commerciale o qualsiasi altro tipo di conflitto, la Cina si batterà fino all’ultimo”.

Il tono aggressivo di Pechino nasce da alcune dichiarazioni che il segretario alla difesa statunitense Pete Hegseth aveva rivolto agli europei, sottolineando che a suo parere lo scontro con la Cina è “inevitabile”, e che gli Stati Uniti hanno bisogno di conservare in quest’ottica le armi che producono, invece di inviarle in Europa. Parole a dir poco raggelanti.

Sotto l’amministrazione Biden gli Stati Uniti e la Cina avevano tentato a più riprese, senza troppo successo, di definire le regole del gioco per restare rivali strategici senza necessariamente farsi la guerra. I contatti tra militari erano ripresi ed erano state avviate alcune consultazioni, come ai tempi della guerra fredda tra Washington e Mosca. Questo, però, non ha impedito l’imposizione di sanzioni nel campo della tecnologia da una parte e dall’altra, e anche una serie di scambi di “cortesie” in un quadro più o meno controllato.

Ma con l’arrivo di Trump le sottigliezze diplomatiche non hanno più diritto di esistere. Il nuovo presidente adora gli attacchi brutali e umilianti. L’aggiunta di un altro 10 per cento sui dazi nei confronti della Cina (per un totale del 20 per cento) arriva proprio nel momento in cui a Pechino comincia l’appuntamento politico dell’anno, con la doppia sessione di sedute del Congresso nazionale del popolo e della Conferenza politica consultiva del popolo. È una mossa incosciente, oltre che una provocazione, e quindi la risposta non poteva che essere perentoria e immediata. Anche in Cina, d’altronde, l’opinione pubblica non apprezza la prepotenza di Washington.

Esiste davvero il rischio dello scoppio di un conflitto? Le guerre si dividono tra quelle che vengono dichiarate (come l’invasione russa dell’Ucraina) e quelle che non si riesce a impedire.

Un esempio: qualche giorno fa gli Stati Uniti hanno confermato un trattato di alleanza con le Filippine. Può sembrare una notizia di secondo piano, ma l’arcipelago situato nel Mar cinese meridionale è uno dei luoghi (insieme a Taiwan e al mar del Giappone) dove potrebbe effettivamente esplodere un conflitto.

La Cina rivendica una zona marittima che sconfina nelle acque territoriali filippine. In questo momento si verificano regolarmente scontri (moderati) tra i due eserciti, ma cosa succederebbe se un giorno uno di questi incidenti degenerasse provocando vittime?

I leader cinesi sono convinti da anni che la guerra con gli Stati Uniti sia inevitabile, e si preparano allo scontro. Questo sentimento sembra ormai condiviso dalla nuova amministrazione a Washington, che non intende permettere a Pechino di conquistare lo status di prima potenza mondiale.

Il governo cinese si chiede se le pressioni attuali siano il preludio a un confronto militare o se invece l’obiettivo sia quello di preparare un grande deal, un accordo di quelli che piacciono tanto a Trump.

Questa incertezza è uno strumento nelle mani del presidente-affarista, ma allo stesso temo alimenta il rischio di uno scontro tra due paesi che da tempo giocano con il fuoco della guerra.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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Settantuno morti nei combattimenti più violenti in Siria dalla caduta di Assad

Il 7 marzo le forze di sicurezza siriane hanno lanciato una grande operazione di rastrellamento nell’ovest della Siria in seguito ai combattimenti con i miliziani fedeli all’ex presidente Bashar al Assad, che hanno causato più di settanta morti, secondo l’ong Osservatorio siriano per i diritti umani.

Il ripristino della sicurezza è la sfida più urgente per le nuove autorità siriane, al potere da quando una coalizione ribelle ha deposto Assad, l’8 dicembre.

“In ventiquattr’ore i combattimenti hanno causato 71 morti, tra cui 35 membri delle forze di sicurezza, 32 combattenti fedeli ad Assad e quattro civili”, ha affermato l’ong.

Secondo l’ong, ci sono anche decine di feriti e prigionieri su entrambi i fronti.

“Una grande operazione di rastrellamento è cominciata nelle città, nei villaggi, nelle località e nelle aree montuose delle regioni di Latakia e Tartus, dopo l’arrivo di rinforzi militari”, ha riferito la mattina del 7 marzo l’agenzia di stampa ufficiale Sana, citando una fonte delle forze di sicurezza.

Secondo questa fonte, l’operazione sta prendendo di mira “le milizie di Assad e tutti quelli che le hanno sostenute”.

Il ministero della difesa ha confermato l’invio di rinforzi nelle città di Latakia e Tartus “per ripristinare la sicurezza”.

Le violenze sono cominciate nella regione di Latakia, una roccaforte della minoranza alawita a cui appartiene anche il presidente deposto.

I combattimenti più intensi si sono verificati nella città di Jable e nei villaggi vicini alla costa.

“In un attacco pianificato con cura alcuni gruppi di miliziani fedeli ad Assad hanno attaccato le nostre postazioni nell’area di Jable”, ha dichiarato Mustafa Kneifati, responsabile della sicurezza a Latakia.

Secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani, “l’attacco è stato il più violento contro le nuove autorità dalla caduta di Assad”.

Il 6 marzo le autorità hanno proclamato un coprifuoco a Latakia e Tartus, oltre che in una parte della regione di Homs.



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La Guyana denuncia il Venezuela alla Cig per le elezioni in una regione contesa

Il 6 marzo la Guyana ha presentato ricorso alla Corte internazionale di giustizia (Cig) contro il Venezuela, che punta a organizzare delle elezioni nella regione contesa dell’Esequibo. La regione, ricca di petrolio, è amministrata dalla Guyana ma rivendicata da Caracas.

Il ministero degli esteri di Georgetown ha chiesto alla Cig, il principale organo giudiziario delle Nazioni Unite, di “ordinare al Venezuela di astenersi da qualsiasi azione sul territorio sovrano della Guyana”.

È la seconda volta che la Guyana presenta ricorso alla Cig contro il Venezuela. Alla fine del 2023 i giudici avevano ordinato a Caracas di “astenersi da qualunque azione che possa alterare la situazione nella regione contesa”.

Il Venezuela ha fissato per il 25 maggio le elezioni per il rinnovo dei governatori dei suoi più di venti stati, precisando che si svolgeranno anche nell’Esequibo, una regione di 160mila chilometri quadrati sulla quale Caracas ha proclamato la propria sovranità nel 2024, in seguito a un referendum organizzato in Venezuela.

Il governo venezuelano non ha chiarito chi potrà votare e come funzionerà lo scrutinio nella regione, che ha 125mila abitanti, cioè un quinto della popolazione della Guyana.

Caracas sostiene che un accordo firmato a Ginevra nel 1966, prima dell’indipendenza della Guyana, ponga le basi di una soluzione negoziata della disputa al di fuori della Cig, e che il fiume Esequibo costituisca un confine naturale, come nel settecento all’epoca dell’Impero spagnolo.

La Guyana sostiene invece che il confine attuale, risalente all’epoca della colonizzazione britannica, sia stato fissato definitivamente nel 1899 da un tribunale arbitrale di Parigi.

La disputa si è intensificata dopo che nel 2015 l’azienda petrolifera statunitense ExxonMobil ha scoperto alcuni giacimenti di petrolio al largo delle coste dell’Esequibo.

Nel dicembre 2023 il presidente della Guyana Irfaan Ali e il suo collega venezuelano Nicolás Maduro avevano concordato che i due paesi non avrebbero “usato la forza l’uno contro l’altro in nessuna circostanza, né direttamente né indirettamente”.



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