La constatazione è deprimente. A farla sul Financial Times è il direttore di un centro di ricerca europeo ed ex consulente del servizio diplomatico di Bruxelles. “La politica estera dell’Unione europea è in pericolo”, scrive Steven Everts, a capo dell’Istituto per gli studi sulla sicurezza. Il problema, secondo Everts, è che la politica comunitaria non riesce a essere rilevante.
Difficile contraddirlo. Tra tutti gli ambiti del progetto europeo, la politica estera è quello che tocca maggiormente la sovranità degli stati. Perfino la difesa è più integrata, con la Nato che raggruppa quasi tutti i paesi dell’Unione.
Da una quindicina d’anni, con l’evoluzione dei trattati, la politica estera e di sicurezza comune (Pesc) ha assunto più importanza. L’Unione si è dotata di un Alto rappresentante che ha anche il rango di vicepresidente della Commissione e di un Servizio per l’azione esterna che è l’equivalente di un ministro degli esteri, con tanto di ambasciate.
Malgrado questi sforzi, però, resta un problema di natura politica. Ce ne accorgiamo in contesti complessi come la guerra a Gaza o i rapporti con la Cina, dove risulta quasi impossibile andare oltre gli interessi nazionali.
Quando le strategie dei 27 convergono, come nel caso dell’invasione dell’Ucraina cominciata due anni e mezzo fa, l’Unione è capace di agire rapidamente ed efficacemente. Lo dimostrano le sanzioni contro la Russia e gli aiuti militari a Kiev, adottati nonostante le reticenze di chi è contrario, a cominciare dall’Ungheria di Viktor Orbán.
Ma quando i fatti sono troppo lontani, l’Unione risulta afona, inesistente. È il caso della guerra scatenata da Israele a Gaza dopo l’attacco del 7 ottobre da parte di Hamas.
In questo contesto i 27 sono incapaci di avere un peso reale, divisi tra chi ha scelto di riconoscere unilateralmente lo stato di Palestina (Spagna), chi preferisce una prudenza dettata dalla storia (Germania) e chi è allineato all’estrema destra israeliana (Ungheria). Queste differenze profonde rendono impossibile una politica estera comune.
Esiste una soluzione? Il momento storico lo richiederebbe, davanti al moltiplicarsi di conflitti e sfide cruciali come quella di un possibile ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca. Eppure, a breve termine, sembra un miraggio. Una semplice riforma come il voto a maggioranza qualificata invece che all’unanimità sarebbe un primo passo per uscire dall’impasse, ma davvero Francia, Italia o Germania accetterebbero di subire l’imposizione di decisioni che disapprovano? La risposta è implicita nella domanda.
Resta il fatto che senza una politica estera e di sicurezza comune, il vecchio continente non diventerà mai una potenza capace di avere un ruolo importante nella ricomposizione del mondo a cui stiamo assistendo. L’Europa, allo stato attuale, è condannata a essere solo un’appendice degli Stati Uniti, o peggio ancora un vassallo esposto ai venti più forti. L’esito delle elezioni presidenziali americane del 5 novembre avrà inevitabilmente un effetto enorme.
Tra qualche giorno sarà presentata la nuova Commissione europea, con l’ex prima ministra estone Kaja Kallas come Alto rappresentante per gli affari esteri. La sua missione sarà quella di fare emergere una coesione europea su grandi temi attuali, laddove il suo predecessore, lo spagnolo Josep Borrell, era il rappresentante di una politica estera tutta sua. Proveniente da una zona altamente strategica ed esposta alla guerra, Kallas ha sicuramente una sua visione, ma non è detto che riesca a coinvolgere tutti i 27.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
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