La Volkswagen con le spalle al muro – Max Hägler

Quanto la notizia sia esplosiva lo si capisce anche dal momento in cui è stata data. I dirigenti della Volkswagen hanno aspettato le elezioni nei land della Turingia e della Sassonia. Non è un caso, raccontano diverse persone coinvolte: solo il 2 settembre, una volta che si è saputo come avevano votato tutti gli elettori, compresi quelli già in ansia per il loro futuro, come i dipendenti dello stabilimento di auto elettriche di Zwickau, in Sassonia, il consiglio d’amministrazione dell’azienda ha annunciato un piano di crisi senza precedenti. “Nuovi concorrenti ci minacciano mentre la congiuntura economica diventa sempre più dura”, ha spiegato l’amministratore delegato Oliver Blume. La situazione è “seria” e “molto tesa”, in particolare per la casa madre Volkswagen (al gruppo appartengono anche altri marchi, tra cui Škoda, Seat, Cupra, Audi, Porsche, Scania e Man). Questa crisi non può essere superata con misure ordinarie: il gruppo non può più garantire i posti di lavoro, intoccabili dal 1994. Le vendite di veicoli Volkswagen vanno così male che ora alcune fabbriche potrebbero perfino chiudere. Si parla di uno stabilimento di auto e un altro che produce componenti. Già alla fine del 2023 la Volkswagen aveva elaborato un piano di tagli per dieci miliardi di euro tra il 2024 e il 2026, ma nei mesi scorsi si diceva che non sarebbe stato sufficiente.

La notizia del 2 settembre è piombata addosso non solo ai dipendenti, ma all’intera Germania. La Volkswagen, con la sua rete di fornitori e il suo volume di esportazioni, è una sorta di sismografo dell’economia tedesca. A questo va aggiunto che si tratta di un’azienda decisamente tedesca dal punto di vista storico e culturale. Ha sfornato le auto simbolo di ogni generazione vissuta in Germania dal dopoguerra in poi: la Golf, il pulmino Bulli, la Passat hanno trasformato le strade, come ancora prima aveva fatto il Maggiolino. E all’origine di tutto ci furono i nazisti, che sostennero la fondazione della casa automobilistica durante il terzo Reich.

La notizia spaventa anche perché finora l’azienda non ha mai chiuso una fabbrica in Germania. Non successe durante la crisi petrolifera degli anni settanta né durante la recessione del 2008 né in seguito allo scandalo delle emissioni del 2014. Come si spiega la situazione di oggi?

Secondo Jens Südekum, professore di economia all’università di Düsseldorf e consulente del ministero dell’economia, è un problema fondamentale che interessa l’intera l’industria automobilistica. Nel quartier generale del gruppo a Wolfsburg si parla di “tempesta perfetta”. Al Bundestag l’opposizione è già al lavoro per trasformare il caso Volkswagen in un “caso Germania”. “Finalmente il governo capirà qual è la nostra posizione”, ha dichiarato Friedrich Merz, il presidente dell’Unione cristianodemocratica (Cdu). Forse, ha spiegato il leader conservatore, la Volkswagen ha commesso un errore schierandosi a favore dell’auto elettrica. La responsabilità principale, tuttavia, è del governo: “Il nostro paese non è più competitivo come un tempo”.

La replica del ministro dell’economia Robert Habeck, dei Verdi, non ha tardato. “I ripensamenti” nel passaggio al motore elettrico sarebbero “fatali”. Così si fa solo contenta la Cina, “che continua a espandere il suo sviluppo tecnologico”.

Dopo lo scandalo del diesel l’azienda ha puntato sulle auto elettriche

Che la situazione sia complicata lo si capisce anche dal fatto che probabilmente sia Merz sia Habeck hanno ragione. Dopo lo scandalo del diesel la Volkswagen ha puntato sulle auto elettriche come nessun altro produttore. Ma le vendite non decollano, forse anche perché nell’offerta c’è un vuoto: manca un’utilitaria a prezzi abbordabili, per cui la maggior parte dei clienti continua a comprare auto tradizionali.

Allo stesso tempo i profitti dei veicoli elettrici sono relativamente bassi perché le materie prime necessarie per costruirli restano più costose di quanto si sperava. E intanto le vendite del gruppo nel suo mercato più importante, quello cinese, sono crollate. Negli ultimi anni nuovi concorrenti hanno sviluppato auto elettriche economiche, che spesso non hanno nulla da invidiare a quelle prodotte in Bassa Sassonia. I cinesi, inoltre, importano le loro auto in Europa a bordo di navi giganti costruite apposta e stanno perfino pensando di aprire fabbriche nel vecchio continente. Le conseguenze si sentono anche sulla catena dei fornitori tedeschi: negli ultimi mesi, le tre aziende principali – Bosch, Conti e Zf – hanno annunciato il taglio di più di ventimila posti di lavoro.

Ci sono anche difficoltà strutturali, che sfuggono alla capacità d’intervento dell’azienda: i costi dell’elettricità, la burocrazia, problemi di cui soffre l’intera industria tedesca. Eppure la Volkswagen rappresenta un caso particolare. A Wolfsburg settantamila persone gestiscono, progettano e sviluppano automobili di tutti i marchi e, soprattutto, producono la Golf e la Tiguan. Alle migliori condizioni. Gli stipendi sono i più alti del settore. Anche se di recente la maggior parte dei profitti è arrivata dalla Cina, questo non ha intaccato la fiducia e la convinzione che le cose andranno avanti così per sempre.

Potrebbe essere raccontata come una bella favola del benessere in cui esiste una sola legge: si cresce sempre e nessuno viene licenziato. Ma si può raccontare anche in un altro modo: a Wolfsburg si possono assemblare un milione di veicoli all’anno, in teoria; in realtà dalla sede aziendale più costosa del mondo ne escono meno di cinquecentomila, perché di più il mercato non ne chiede. Se le condizioni di lavoro dei dipendenti sono sempre state buone, il rendimento non è altrettanto soddisfacente. Finora il marchio principale ha registrato un utile pari solo al 3-4 per cento del fatturato. La Bmw è arrivata al 9 per cento e la Stellantis al 14 per cento. Finché l’economia è in salute e le altre aziende del gruppo – soprattutto l’Audi e la Porsche – portano soldi, non c’è da preoccuparsi. Ma ora anche l’Audi e la Porsche attraversano un momento difficile.

Chi può descrivere bene la situazione è Herbert Diess: dal 2015 al 2022 è stato numero uno della Volkswagen e poi dell’intero gruppo, ma anche la persona più critica verso l’azienda. Allora, a proposito dei tagli, diceva che chi voleva cambiare il sistema della Volkswagen doveva smantellare vecchie strutture incrostate, soprattutto nella sede centrale dell’azienda. Ma dato che Diess non ha mai seriamente cercato di rendere l’azienda più reattiva e competitiva dialogando con i lavoratori, non è andato oltre le sue diagnosi. Uno dei suoi esempi preferiti era il caffè: se il servizio di catering interno portava una caraffa di caffè a un tavolo per le riunioni, costava 62 euro e svariate pratiche burocratiche, si era lamentato più volte Diess. È assurdo, diceva, e per spiegarlo si era portato dietro una macchina per l’espresso dal lago di Garda, dimostrando che c’erano modi più economici di procurarsi il caffè.

Diess è stato licenziato due anni fa, anche perché non smetteva di criticare e provocare. Il suo successore Blume ha un carattere diverso: parla molto con i dipendenti e, a differenza di Diess, che è bavarese, è uno della zona. Ma ora anche lui, come il capo del marchio Volkswagen, Thomas Schäfer, è arrivato a conclusioni simili, forse non sul caffè ma di sicuro sulla redditività dell’azienda. Anche Daniela Cavallo, presidente del consiglio di fabbrica, ha chiesto un cambiamento urgente e ha dichiarato che il marchio Volkswagen ha bisogno di una “ristrutturazione” e che la situazione è “grave”. Cavallo, però, vede la via d’uscita dalle difficoltà in modo del tutto diverso da Blume o Diess. Secondo lei serve una visione sulla direzione da prendere. Ma invece di immaginare obiettivi per il futuro, la dirigenza “mette in discussione l’intero marchio Volkswagen”. Stipendi più bassi e stabilimenti chiusi non risolverebbero niente, conclude Cavallo.

In pratica sono tutti d’accordo che qualcosa deve cambiare, ma non si trova una linea comune. Habeck si è fatto avanti nel ruolo di moderatore. E poi c’è Stephan Weil, il presidente socialdemocratico della Bassa Sassonia. Il land detiene il 20 per cento delle azioni Volkswagen e solitamente si schiera dalla parte del sindacato, la Ig Metall, e del consiglio di fabbrica, dato che la sua preoccupazione principale è mantenere i posti di lavoro. Il governo locale è consapevole della situazione e sa che qualcosa deve cambiare, purché non si arrivi alla chiusura degli stabilimenti. Escludere del tutto quest’ipotesi, però, non è più possibile. A Wolfsburg si specula già sulle trattative. Chiusura di uno stabilimento più piccolo in cambio di nuove garanzie sui posti di lavoro. Salari più alti grazie a un contratto collettivo aziendale, ma non del 7 per cento come chiede l’Ig Metall. Potrebbe essere una soluzione. Ma intanto i cinesi continuano a essere più veloci e più economici. ◆ nv

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