All’inizio di settembre il gruppo Volkswagen ha annunciato che intende ridurre il personale per far fronte alla grave crisi che attraversa da mesi. Finora l’azienda si è limitata a non rinnovare i contratti dei lavoratori interinali assunti a tempo determinato. La misura ha riguardato la fabbrica di Zwickau, che produce auto elettriche per le quali al momento la domanda è debolissima. La novità più eclatante, tuttavia, è che i vertici del gruppo automobilistico tedesco non escludono la chiusura di impianti in Germania. Sarebbe come infrangere un vero e proprio tabù, visto che in 87 anni di storia la Volkswagen non ha mai chiuso una fabbrica nel paese e che da trent’anni non licenzia nessun dipendente e in teoria si è impegnata a non farlo almeno fino al 2029. L’attuazione di un piano simile scatenerebbe la reazione durissima non solo dei sindacati, ma anche della politica, dal momento che il gruppo Volkswagen è controllato al 20 per cento dal land della Bassa Sassonia.
Daniela Cavallo, la potente sindacalista che guida il consiglio di fabbrica della Volkswagen (l’organo di controllo in cui siedono i rappresentanti dei lavoratori e che ha il potere di bloccare le decisioni più importanti), ha dichiarato che i piani dell’azienda sono “un’aggressione alla nostra occupazione, alle fabbriche e ai contratti. Mettono a rischio la Volkswagen e il cuore del gruppo. Noi ci batteremo duramente, con me non ci saranno chiusure di impianti”. Nel consiglio di fabbrica i lavoratori troveranno un alleato nei rappresentanti della Bassa Sassonia, visto che insieme raggiungono la maggioranza. Stephan Weil, il presidente socialdemocratico del land, ha detto che intende discutere con la massima attenzione il problema e che la chiusura delle fabbriche va esclusa.
La politica, ovviamente, è preoccupata per le conseguenze sociali (ed elettorali) dei licenziamenti, visto che che dei 650mila dipendenti del gruppo nel mondo trecentomila sono in Germania. Ma, come fa notare il quotidiano bavarese Süddeutsche Zeitung, qualunque soluzione proposta – incentivi per l’acquisto di auto elettriche, garanzie sui posti di lavoro, dazi – non avrà senso se non sarà affrontato il vero problema all’origine della crisi: la perdita di competitività di un grande gruppo, dovuta soprattutto al fatto che la concorrenza cinese e quella statunitense – in particolare nel mercato dell’auto elettrica, ma non solo in quello – hanno fatto passi da gigante in termini di innovazione e produttività.
La crisi della Volkswagen si ripercuote sull’intero sistema economico tedesco (sui suoi risvolti potete leggere l’articolo del settimanale tedesco Die Zeit tradotto da Internazionale), ma in realtà riflette problemi che interessano tutte le case automobilistiche occidentali, spiazzate dall’arrivo sui mercati globali di auto cinesi (elettriche e tradizionali) dotate di ottime tecnologie a prezzi bassissimi. Merito sicuramente dei generosi sussidi di Pechino, ma anche dell’altissimo livello di produttività raggiunto dagli impianti del paese asiatico. Secondo Bloomberg, oggi le grandi case automobilistiche europee, tra cui la Volkswagen, la Stellantis e la Renault, vendono il 20 per cento in meno rispetto ai livelli precedenti alla pandemia di covid-19 e hanno una trentina di impianti che lavorano in perdita. Nella prima metà del 2024 gli utili della Stellantis sono crollati di quasi il 50 per cento: in Italia, in particolare, la sua produzione è diminuita di più di un terzo nei primi sei mesi dell’anno, con conseguenze a dir poco negative per gli impianti di Melfi e Mirafiori. Il 12 settembre, infatti, il gruppo ha annunciato che a ottobre sospenderà la produzione della Fiat 500 elettrica.
Luca de Meo, l’amministratore delegato della Renault, propone la creazione di un consorzio europeo dell’auto elettrica, sul modello che ha permesso all’Europa, con la nascita di Airbus, di sfidare il colosso statunitense Boeing nel settore dell’aviazione. L’idea del manager non è di facile attuazione, almeno nel breve periodo, ma ha il merito di spostare l’attenzione sul fatto che per salvare l’industria automobilistica europea dall’attacco della Cina e degli Stati Uniti non basteranno né gli incentivi, né i dazi né il rallentamento della transizione verso l’auto elettrica (ormai sono in molti, compresa l’Italia, a chiedere che l’Unione europea ci ripensi sul termine del 2035, la data a partire dalla quale sarà vietata la vendita di auto con motore a combustione). Serve una politica che sostenga le tecnologie e le competenze e rilanci l’industria nel vecchio continente. Nella situazione attuale l’Europa potrebbe essere presto popolata di impianti che si limitano ad assemblare tecnologie sviluppate e prodotte in Asia e negli Stati Uniti.
Non è un caso che il settore automobilistico sia una delle aree vitali per il rilancio dell’economia europea individuate da Mario Draghi nel suo rapporto The future of European competitiveness, realizzato su incarico della Commissione europea. “Se l’Unione europea non sarà in grado di adeguarsi rapidamente al nuovo contesto”, scrive l’ex presidente della Banca centrale europea ed ex presidente del consiglio italiano, “il settore automobilistico potrebbe perdere rapidamente terreno. Secondo alcuni esperti, nei prossimi cinque anni più del 10 per cento della produzione locale potrebbe essere dismessa”. La ricetta di Draghi è investire nella tecnologia e nelle competenze, anche creando dei poli di ricerca europei.
Il discorso non vale solo per l’auto. È l’intera economia continentale a soffrire gravi ritardi nei confronti della Cina e degli Stati Uniti. Draghi propone un grande piano di investimenti comuni – 800 miliardi di euro, pari al 4,4-4,7 per cento del pil europeo (il piano Marshall voluto dagli Stati Uniti dopo la seconda guerra mondiale era pari all’1-2 per cento del pil) – nella transizione energetica, nelle tecnologie digitali, nella difesa, nella sicurezza, nella produttività e nell’innovazione. Ma non ci sono solo i soldi: è necessario anche un profondo cambiamento politico. Bisognerebbe, per esempio, accelerare i processi decisionali, snellire la regolamentazione e soprattutto accettare una maggiore integrazione delle politiche economiche e fiscali degli stati membri. Insomma, gli investimenti hanno un senso se alla base c’è una visione comune. Meglio ancora se gli stati dell’Unione europea accettano di fare passi avanti in direzione degli Stati Uniti d’Europa. L’alternativa a un’Europa davvero unita e che non ha paura del futuro è un continente inadeguato alle sfide globali e destinato al declino, a una “lunga agonia”, stretto nella morsa tra la Cina e gli Stati Uniti.
Ora la parola passa alla politica. L’analisi e le proposte di Draghi sono la base per far partire una discussione su una politica industriale innovativa e in generale sul futuro dell’Unione europea. Il timore è che ancora una volta prevalgano atteggiamenti miopi e la difesa dei campioni e degli interessi nazionali. A partire dall’Italia, ogni paese membro è entusiasta dell’Unione europea solo quando le sue decisioni favoriscono i propri obiettivi. Poche ore dopo la presentazione dello studio di Draghi, il ministro delle finanze tedesco, il liberale Christian Lindner, ha dichiarato che la Germania “non appoggerà” una delle idee centrali del testo: i debiti in comune.
L’11 settembre, intanto, il primo ministro spagnolo Pedro Sánchez ha dichiarato che il paese sta “riconsiderando” la sua posizione sui dazi doganali sulle importazioni di veicoli elettrici cinesi. Tra le sue preoccupazioni c’è il timore che lo scontro commerciale con Pechino possa “danneggiare gli esportatori spagnoli”. Le parole di Sánchez, inoltre, sono arrivate il dopo che l’azienda cinese Envision ha firmato un accordo per investire in Spagna un miliardo di dollari nella produzione di elettrolizzatori di idrogeno, una tecnologia che permette di ottenere idrogeno a base emissioni da fonti rinnovabili. Come ha scritto l’ex direttore dell’Economist Adrian Wooldridge, “è più probabile che nel vecchio continente si finisca con un misto di vecchie strategie industriali – alcune nazionali e altre a livello europeo, tutte distorte dalla protezione di interessi particolari – che sosterranno le deboli economie nazionali invece di dare vita a nuove Apple o a nuovi Google”.
Questo testo è tratto dalla newsletter Economica.
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