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Il racconto di Eva Kaili dopo il carcere per il Qatargate

«È triste vedere come non venga rispettata la presunzione di innocenza. Mi dispiace che nessuno degli eurodeputati mi abbia cercato per ascoltare la mia versione». A pochi giorni dalla fine della sua detenzione, torna a parlare l’ex vicepresidente del Parlamento europeo Eva Kaili, coinvolta nell’inchiesta per corruzione che a dicembre 2022 si è abbattuta sull’Eurocamera. Sei mesi fa è stata arrestata in Belgio perché accusata di far parte di un ipotetico sistema di corruzione al Parlamento europeo legato a Qatar e Marocco che faceva capo all’eurodeputato Antonio Panzeri. Nonostante accuse vaghe che ancora oggi non spiegano come, quando e con precisione perché avrebbe ricevuto le mazzette, tanto è vero che la relazione finale della polizia belga del luglio 2022 dice che «non ci sono elementi per dire che facesse parte dell’organizzazione», è stata quattro mesi in cella e due ai domiciliari. L’arresto avvenne perché nella retata del 9 dicembre chiese al padre di portare via da casa una valigia con 700 mila euro in contanti che, per l’accusa, erano i soldi incassati con il marito Francesco Giorgi. La coppia si è difesa dichiarando che i soldi erano dell’ex parlamentare europeo Antonio Panzeri. Kaili ha negato responsabilità. Sul Corriere – tramite le domande inviate ai suoi legali prima che il giudice Michel Claise le limitasse i rapporti con la stampa con un provvedimento successivo alla revoca dei domiciliari – racconta il suo periodo in cella e a casa con il braccialetto elettronico. «Subito dopo l’arresto, al commissariato di polizia sono stata messa in isolamento in una cella con luci e telecamera di sorveglianza sempre accese, senza acqua corrente. Ho sofferto il freddo gelido perché mi è stato tolto il cappotto. Ero preoccupata per la mia bambina, perché i primi giorni non mi è stato permesso di chiamare un avvocato, né la mia famiglia. Il carcere, però, non cambia ciò che siamo, è il modo in cui reagiamo ciò che ci definisce», dice. E sulla separazione dalla figlia, che ha potuto incontrare in carcere solo a gennaio, un mese dopo l’arresto, racconta: «È stato terribile. Separare una madre per quattro mesi dalla figlia di due anni non solo è considerata una forma di tortura nei Paesi fondati sullo Stato di diritto, ma è in piena violazione della Convenzione sui diritti dei minori delle Nazioni Unite ratificata dal Belgio. Un minore non dovrebbe mai essere separato dai propri genitori se non c’è pericolo per la sua incolumità fisica o mentale. È una tortura inutile perché le indagini avrebbero potuto procedere allo stesso modo con me ai domiciliari. I bambini sotto i tre anni possono stare con le loro madri, ma a me non è stato permesso. Usare mia figlia per farmi pressione è stato un atto spietato e sono riconoscente ad Amnesty International Italia per aver sollevato la questione. Durante i nostri rari incontri, si nascondeva e piangeva per non lasciarmi. Ora mi tiene la mano o mi mette le mani intorno al collo per dormire». Poi spiega la sua versione dei fatti: «Quando Francesco (il marito, ndr) è stato arrestato e gli hanno sequestrato l’auto, ho pensato a un incidente stradale. Poi mi hanno mandato la notizia che anche Panzeri era stato arrestato. Sono andata in panico. Sapevo che nel suo ufficio, che è di sopra (l’appartamento è un bilocale su due piani, ndr) e dove non vado mai, c’era una valigia di Panzeri e ho trovato un sacco di soldi. Non riuscivo a capire cosa fosse successo, ma volevo allontanare da casa quel denaro per ridarlo a Panzeri, che credevo ne fosse il proprietario. Non ho pensato minimamente di avvalermi della mia immunità parlamentare, e questo dimostra che non sapevo assolutamente ciò che il denaro rappresentava realmente». Kaili dice che sapeva solo che «Panzeri riceveva donazioni. Data la sua esperienza negli affari esteri e nei diritti umani, ha avuto contatti con diverse persone di paesi terzi (non Ue ndr) e attraverso la sua ong Fight impunity promuoveva una causa nobile. Ci sono testimonianze documentate sulla sua attività nel Parlamento e sulle persone che ha coinvolto. Io non sono tra quelle. Le commissioni parlamentari di cui faccio parte e il mio lavoro legislativo non hanno alcuna relazione con le sue attività. Anche i servizi segreti confermano che non faccio parte di nessuna organizzazione criminale. Nessuno può corrompermi. Dopo più di un anno di indagini i miei conti correnti e le mie proprietà sono state controllate e sono risultate cristalline. Sulle banconote trovate non ci sono le mie impronte digitali. Con i miei avvocati dimostrerò la mia innocenza». Panzeri è stato il datore di lavoro del marito di Eva Kaili «e lo ha assunto quando era solo uno studente di venti anni. Ha lavorato per lui come assistente e traduttore personale e ha continuato ad aiutarlo anche dopo la fine del suo mandato al Parlamento. Francesco aveva un senso di gratitudine e di obbligo morale molto profondo nei suoi confronti». Dopo essersi pentito, Panzeri però ha detto che a lei erano destinati 250mila euro. «Non ho ricevuto denaro», risponde Kaili. «Penso che il pentimento e le confessioni di Panzeri siano state ottenute sotto minaccia. Il messaggio era chiaro: se fai i nomi, ti offriamo un accordo e liberiamo tua moglie e tua figlia dalla prigione. Sono metodi non degni di uno Stato di diritto. Hanno fatto lo stesso con me. Dichiarandomi colpevole o facendo nomi importanti sarei tornata subito da mia figlia, ma dato che avrei dovuto mentire, non ho mai nemmeno pensato che potesse essere un’opzione. Durante il primo interrogatorio e prima di pentirsi, Panzeri ha fatto i nomi di due membri del Parlamento di lingua italiana e non il mio e non parla di me neppure nelle intercettazioni telefoniche. Il primo è stato arrestato, l’altra persona non ha avuto problemi, mi chiedo ancora perché. Forse perché protetta da un’immunità speciale?». Il riferimento sarebbe ai deputati italo-belgi Marc Tarabella e Maria Arena. «I nomi sono negli atti», dice la deputata greca. Lei però incontrato due volte il ministro del lavoro del Qatar, che gli inquirenti considerano un finanziatore della corruzione. «Nel mio ruolo di vicepresidente responsabile delle relazioni con i Paesi del Medio Oriente ho incontrato diversi ambasciatori e ministri e avevo in programma delle visite ufficiali in tutti i Paesi del Golfo», risponde. «Era una missione di diplomazia parlamentare fatta per conto della presidente del Parlamento europeo, Roberta Metsola. L’Ue considera il Qatar come un partner fondamentale nella regione. È l’unico Paese del Golfo ad aver condannato l’invasione russa dell’Ucraina e la sua posizione geopolitica come esportatore alternativo di Gnl verso la Russia lo rende strategicamente importante per gli Stati membri. Inoltre, l’Ilo (Organizzazione internazionale del lavoro ndr) ha descritto il Qatar come leader nel mondo arabo nell’ambito dei diritti dei lavoratori e ha deciso di aprire un ufficio nel Paese e l’Ue ha recentemente aperto un’ambasciata in Qatar. In quel contesto ho incontrato due volte il ministro del Lavoro il quale, negli stessi giorni, ha incontrato i ministri degli Affari Esteri e del Lavoro del Belgio e altri colleghi parlamentari». Poi Kaili parla anche dell’aspetto mediatico del Qatargate: «Credo che le aspettative create dai media fossero alte e le fughe di notizie selettive e illegali sulla stampa hanno trasformato i dibattiti televisivi mondiali in aule di tribunale. I giornalisti avevano le informazioni prima dei miei avvocati, il che ha portato a speculazioni estreme. Dopo tutti questi mesi non è venuto fuori nulla di nuovo. Il Parlamento ha protezioni che nessun lobbista può abbattere. Ma c’è una cosa inquietante che vorrei sollevare. Dal fascicolo giudiziario i miei avvocati hanno scoperto che i servizi segreti belgi avrebbero messo sotto osservazione le attività dei membri della commissione speciale Pegasus (indaga sulle intercettazioni di leader europei fatte illegalmente dal Marocco ndr). Il fatto che i membri eletti del Parlamento siano spiati dai servizi segreti dovrebbe sollevare maggiori preoccupazioni sullo stato di salute della nostra democrazia europea. Penso sia questo il vero scandalo». Poi, rispetto alla revoca della vicepresidenza da parte della presidente Roberta Metsola, dice: «È triste vedere come non si rispetti la presunzione di innocenza. Mi dispiace che nessun eurodeputato mi abbia cercato per ascoltare la mia versione. Ho apprezzato la posizione di Massimiliano Smeriglio (Sd) e sono molto riconoscente a Deborah Bergamini (Ppe), la deputata italiana più coraggiosa che ha osato venirmi a trovare in prigione e ha denunciato i metodi inumani usati contro di me». Tornerà al Parlamento? «Vorrei essere in aula già lunedì 12, ma devo avere chiarimenti dai miei legali su come mi devo comportare», risponde. [...]

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Piantedosi annuncia un nuovo disegno di legge contro il femminicidio

Un disegno di legge per difendere le donne. Dopo l’omicidio di Giulia Tramontano, il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi lo annuncia in un’intervista alla Stampa. Un lavoro di squadra con il Guardasigilli Carlo Nordio e la ministra della Famiglia, delle Pari opportunità e Natalità Eugenia Roccella, spiega Piantedosi, che parla di «dati preoccupanti» sui femminicidi e la violenza di genere, «un fenomeno particolarmente grave e odioso, intollerabile tanto più in una società avanzata come la nostra». Piantedosi dice che il provvedimento sarà portato in uno dei prossimi Consigli dei ministri. «Ma non ci limiteremo a questo», specifica. «Quando il governo interverrà, in Parlamento ci sarà l’opportuno confronto tra le forze politiche. Sono sicuro che non mancherà un concreto spirito di condivisione e collaborazione». I casi di femminicidio in Italia sono stati 119 nel 2020, 120 nel 2021, 126 nel 2022. «Nel corso di quest’anno, dal 1 gennaio al 28 maggio sono stati registrati complessivamente 129 omicidi volontari di cui 45 vittime sono donne. Trentasette sono state uccise in ambito familiare-affettivo e tra queste sono 22 le donne che hanno trovato la morte per mano del partner o ex partner», ricorda il ministro. L’obiettivo del ddl «è evitare che la violenza o addirittura l’omicidio sia commesso. Le pene severe servono, sono necessarie ma non riportano in vita la vittima e non esauriscono il problema. Per quanto di competenza del Viminale, stiamo ipotizzando un rafforzamento delle misure di prevenzione personali a partire dall’ammonimento nei confronti degli autori delle condotte violente e di informazione alle vittime, estendendo le possibilità e i casi di intervento del questore». «È importante comunicare alle donne vittime di abusi la presenza dei centri antiviolenza che operano sul territorio, mettendole in contatto con queste strutture», aggiunge. E nei confronti degli uomini, si pensa «al potenziamento dell’uso del braccialetto elettronico nel caso in cui l’autorità giudiziaria decida l’adozione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza, nei confronti dei soggetti indiziati di delitti, consumati o tentati, nell’ambito della violenza di genere e domestica». Ma «c’è un tema più ampio che riguarda l’educazione e la formazione che deve partire con efficacia fin dai primi anni di scuola. La premessa di qualsiasi ragionamento sulla violenza contro le donne e sul suo culmine, il femminicidio, infatti, è che non si tratta di un fatto individuale ma sociale. Questa precisazione è decisiva perché parlare di un fenomeno sociale significa che le sue cause non sono da rintracciare soltanto nella devianza del singolo. Certo, le situazioni di cui parliamo ci pongono dinanzi a soggetti che hanno indubbiamente una propensione criminale. Ma chi rivolge la propria indole prevaricatrice verso una donna, per lo più la propria compagna, spesso è convinto intimamente di essere legittimato a farlo». Per questa ragione, «lo strumento per contrastare il fenomeno non può essere limitato alla repressione del reato, ma deve essere agganciato a un progetto culturale, che comporti l’assunzione di una responsabilità collettiva e multidisciplinare per prevenirlo e contrastarlo. Si deve affermare compiutamente il rispetto della vita umana e della altrui libertà affinché in nessun modo la donna possa essere trattata come un oggetto, una proprietà, uno strumento». [...]

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Il governo verso la fiducia allo stop del controllo della Corte dei Conti sul Pnrr

Alla Camera dei deputati arriva oggi il decreto sulla pubblica amministrazione, nel quale il governo ha inserito gli emendamenti che escludono il controllo concomitante della Corte dei Conti sui progetti del Piano nazionale di ripresa e resilienza. Il governo vuole fare in fretta e, al momento, non è escluso un ricorso alla fiducia – nonostante le tensioni dei giorni scorsi con Bruxelles – per poi tirare dritto verso l’approvazione del testo al Senato. Ma a Montecitorio Partito democratico e Movimento Cinque Stelle si preparano a dare battaglia, soprattutto se verrà tagliata la discussione in Aula. Controcorrente Azione e Italia viva. «L’avrei fatto io quel provvedimento», dice Calenda. Quello della Corte «era un controllo assurdo e ridondante». La polemica, però, non accenna a sfumare. E dopo le critiche del procuratore nazionale Antimafia Giovanni Melillo, il presidente dell’Associazione nazionale magistrati Giuseppe Santalucia su Repubblica parla di «esecutivo illiberale». «Ho seguito con grande attenzione la questione del controllo concomitante della Corte sull’attuazione del Pnrr. E sinceramente non riesco a comprendere le ragioni che spingono il governo a eliminarlo e perché mai una verifica in corso d’opera debba essere vista come un ostacolo che rallenta l’azione amministrativa», dice. «Io guardo a quei compiti della Corte in termini opposti, come un aiuto e una collaborazione costruttiva che può prevenire problemi maggiori e far correggere tempestivamente ciò che non va. Il pallino comunque resta sempre nelle mani del governo». L’11 giugno l’Anm ha convocato una assemblea sul caso di Artem Uss, l’imprenditore russo figlio di un oligarca vicino a Putin fuggito mentre era agli arresti domiciliari in costanza della richiesta di estradizione avanzata dagli Stati Uniti. E si guarda anche alle riforme annunciate dal ministro della Giustizia Carlo Nordio, tra cui la possibile abolizione dell’abuso d’ufficio: «È del tutto irragionevole. Mi pare impossibile che il diritto penale possa disinteressarsi del pubblico ufficiale che sfrutta il suo ruolo a fini personali. Di certo eliminare questo reato completa un percorso di riforme che, dopo gli emendamenti sulla Corte dei conti, non rafforza i controlli di legalità che proprio adesso andrebbero potenziati». Più morbido sul caso il presidente dell’autorità Anticorruzione Giuseppe Busia. «Tutti gli organi di garanzia sono parte essenziale dello Stato di diritto, a cui non si può rinunciare. Nel caso specifico il “controllo concomitante” era stato introdotto, poi tolto, poi ripreso. Non mi pare che la norma con cui il governo lo elimina violi le regole europee», dice sulla Stampa. «Vedo un cortocircuito mediatico. Ciò detto, in questi casi la soluzione non è togliere i controlli, ma disciplinarli in modo chiaro. Occorre fare una distinzione fra vigilanza collaborativa e sanzionatoria». E aggiunge: «Il “controllo concomitante” dovrebbe essere un ausilio, oltre che per le amministrazioni, per lo stesso governo. Rinunciarci rientra nelle sue facoltà. L’importante è che restino tutti gli altri controlli, preventivi e successivi. E soprattutto che le procedure avvengano nella massima trasparenza». [...]

- Sofia Carrara
È ora di fare i conti

È tempo di sedersi, prendere carta e penna e fare i conti: il futuro che aspetta l’enogastronomia contemporanea è più vicino di quanto si pensi. Insieme alla tanto ricercata sostenibilità ambientale è necessario parlare in maniera aperta e trasparente delle problematiche quotidiane che riguardano la parte economica e finanziaria della ristorazione, instaurando un dialogo costruttivo. Ed è proprio partendo da questo nodo tematico che il tavolo 4, moderato da Ilaria Ricotti, è riuscito a mettere in luce difficoltà ed estrarre soluzioni sinergiche. Che l’aumento generalizzato dei prezzi sia all’ordine del giorno non è di certo una novità, come non lo sono nemmeno l’incremento dei costi logistici e la continua ricerca di personale: dall’emergenza pandemica ai nuovi assetti geopolitici contemporanei, tutto deve in qualche modo far prevedere cambi di rotta strategici nei propri business plan. È al contempo necessario educare il cliente a questi cambiamenti attraverso una comunicazione ragionata e una proposta studiata con sincerità, affinché lo si possa aiutare a districarsi in un contesto visibilmente viziato dalla speculazione sui rincari. @Gaia Menchicchi Oltre a mettere in chiaro i problemi, è necessario adoperarsi per prendere misure e mettere in pratica scelte e strategie virtuose: per cavalcare con successo le criticità, una soluzione creativa potrebbe essere quella di trasformarle in punti di forza. Una parola chiave in quest’ottica è “imprenditorialità”: la figura enogastronomica del futuro sarà infatti “doppia”, esperta sì del mondo del cibo ma al contempo abile personalità dallo spiccato senso imprenditoriale. Alla fine, si tratta di un intricato gioco di equilibri che si sviluppa a immagine della realtà contingente, economica e sociale. Dal tavolo emerge infatti una nuova tendenza, volta a strutturare il lavoro del personale in maniera radicalmente differente, in termini organizzativi e umani. Reiterare dinamiche nocive all’interno dell’ambiente lavorativo non solo è eticamente insostenibile, ma sembrerebbe anche controproducente. Retribuzione corretta, rivoluzione delle tempistiche e approcci più morbidi: questi sono gli ingredienti per un circolo virtuoso di benessere, importato sul modello estero, affinché si possa contare su un personale stimolato e capace di condividere la propria visione. Accanto alla buona volontà, però, ogni realtà affronta i problemi a seconda delle proprie disponibilità. Sotto questo punto di vista si avverte un sostegno discontinuo da parte delle istituzioni. Ci sono stati sicuramente investimenti e agevolazioni fiscali, ma emerge la necessità di un ridimensionamento “a sistema”, più allineato su tutto il territorio e meno intricato. Al contempo, si avverte l’esigenza di investimenti già a partire dal mondo dell’istruzione, per cambiare la traiettoria sin dalla sua origine infondendo l’ottica imprenditoriale già a chi è in formazione. @Gaia Menchicchi La comunicazione è il terzo elemento cardine su cui indubbiamente è necessario puntare. Se il passaparola rimane il buon vecchio passe-partout per il successo, nella quotidianità digitale è necessario optare anche per una forte presenza sulle principali piattaforme. D’altro canto, oggi chi esce a cena si aspetta una vera e propria esperienza perché per “mangiare”, nel senso più schietto del termine, di opzioni rapide ed economiche se ne contano a dismisura. Allocare risorse in questo senso, allora, non significa solo confezionare una vetrina per attirare nuovi clienti, ma coltivare un vero e proprio spazio dove nutrire un rapporto costante, per definire la propria identità e innescare un processo di loyalty in grado di perdurare nel tempo, a prescindere dalle avversità del futuro. La linea comune del tavolo 4 è chiara: senza un cambio di rotta, la situazione è destinata a corrodersi in fretta. L’enogastronomia contemporanea lo sa bene e non è di certo rimasta con le mani in mano. Siamo quindi al primo atto di un lungo viaggio verso nuovi tempi più sostenibili? Alla fine dei conti, quando si dimostra un’intraprendenza così, il futuro sembra promettere un’operazione in positivo. [...]

- Iuri Maria Prado
Il degrado dell’Italia è ben rappresentato dallo scarso livello culturale di destra e sinistra

Al degrado culturale del Paese contribuiscono in modo rispettivamente diverso la destra e la sinistra: questa è ignorante abbestia senza averne neanche il più pallido sospetto; quella lo è senza farsene nemmeno il più tenue cruccio. Dice: ma tu generalizzi. Non generalizzo (fermo restando che generalizzare è una figata): discuto di un fatto generale. E generalmente al bifolco di destra che non legge nessun libro si giustappone il citrullo di sinistra che legge i libri contro l’odio; per l’uno, impassibile al mondo mentre si gusta la Gasætta (è la Gazzetta in subalpino), c’è l’altro tutto soddisfatto del mondo cazzon friendly che ritrova nel giornale di sinistra. Uno vota Francesco Lollobrigida, ma con l’impegno rimesso a tirare un rutto; l’altro vota per il marito di Nunzia De Girolamo nell’adempimento della mission democratica che celebra la competenza, dio santissimo. Uno è un profugo delle cene eleganti, e finisce lì; l’altro ha cominciato trent’anni fa a fare girotondi e ancora non l’ha finita. Quale dei due arrechi più danno è discutibile, ma è appunto apprezzabilmente diversa l’angolatura identicamente strapaesana del loro giudizio, chiamiamolo così. Uno deplora la destituzione dei principati democratici del servizio pubblico e assiste disperato al rinsecchimento delle fonti culturali cui si abbeverava l’Italia contro l’odio (sì, Christian Rocca, mi spiace, sempre quella); l’altro manco ha bisogno di compiacersene, che tanto c’è Retequattro. La realtà è che un’asineria giustifica e aggrava l’altra: e tanto più il bruto di destra si riscatta nella legittimazione che gli offrono i suoi al governo, quanto più lo scioccherello di sinistra si compiace nell’opporgli la cultura contro l’odio (pardon), che non per caso ma pour cause si manifesta nell’analfabetismo del ddl Zan, nell’analfabetismo della giustizia climatica, nell’analfabetismo dell’antimafia, nell’analfabetismo dei valori della Resistenza, nell’analfabetismo della Costituzione antifascista. Tutta la polta immonda – e appunto non se ne esce – cui la destra trogloditica saprebbe rinfacciare qualcosa se le avessero imparato che per mettere insieme quattro idee e un discorso decente vale la pena di dedicarsi a questa pratica un po’ strana che è aprire qualche libro. [...]

- Robin Mills
L’equilibrio precario dei produttori di petrolio

Questo articolo è stato originariamente pubblicato sul numero 56 di We – World Energy, il magazine di Eni Dopo otto anni turbolenti, i paesi dell’OPEC sembrano ritrovar sollievo. I prezzi del petrolio, abbastanza alti ma non eccessivi, sono relativamente stabili da dicembre e sta all’OPEC decidere se e quando adeguare la produzione. Ma sotto la superficie, ecco i problemi: il crescente divario in seno all’organizzazione, le tensioni latenti nell’alleanza OPEC+ e le minacce geopolitiche. Nonostante la revoca della politica zero-Covid della Cina, le sanzioni e i divieti sul petrolio russo e un sentiment in una certa misura migliore sull’economia mondiale, i prezzi del petrolio non hanno ritrovato i valori massimi e quasi da record dello scorso anno (prossimi ai 130 dollari al barile in marzo e giugno). Molti analisti insistono nel prevedere, entro fine anno, un aumento del Brent Crude, il principale benchmark internazionale, dagli attuali 85 dollari (circa) al barile a più di 100 dollari al barile. Economia in crescita Le prospettive economiche per i tredici paesi dell’OPEC sono piuttosto buone, quest’anno: la crescita prevista dall’International Monetary Fund (IMF) si attesta a un valore medio non ponderato del 4,2 percento, di molto superiore alla media mondiale del 2,7 percento. Tuttavia, la maggioranza dei paesi dell’OPEC trova un freno nella scarsa espansione prevista per i loro settori petroliferi per effetto del perdurare del vincolo delle quote o dell’inadeguatezza della capacità produttiva. L’OPEC ha ripetutamente lamentato il problema del sottoinvestimento nel settore energetico, ma tra i maggiori colpevoli vi sono proprio alcuni dei suoi membri, che pur dispongono di un’ampia base di risorse e hanno costi di produzione bassi. Dopo aver gradualmente aumentato i propri obiettivi di produzione nel corso della ripresa post-pandemia, cioè nel corso del 2021 e nella prima metà del 2022, nell’ottobre 2022 il fronte OPEC ha annunciato a sorpresa un taglio sostanziale della produzione di 2 milioni di barili al giorno (bpd), taglio cui i dieci paesi dell’OPEC vincolati dalle quote dovrebbero contribuire con una riduzione di 1,27 milioni bpd. Nell’aprile 2023 l’Arabia Saudita e diversi altri membri dell’Organizzazione hanno proceduto a ulteriori tagli volontari, per un totale nominale di 1 milione bpd che va ad aggiungersi alla riduzione di 0,5 milioni bpd già annunciata dalla Russia. Gli obiettivi di produzione rimarranno probabilmente fermi fino a quando, e a meno che, i prezzi non aumentino in modo importante. Secondo l’International Energy Agency (IEA), nel 2023 il Call on OPEC (la quantità di petrolio necessaria per bilanciare il mercato) si attesterà a una media di 29,89 milioni bpd e nel quarto trimestre raggiungerà i 31,2 milioni bpd. Le stime dell’OPEC sono invece inferiori: 29,42 milioni bpd su base annua e 30,43 milioni bpd nel quarto trimestre. Reuters stima la produzione dell’OPEC nel febbraio 2023 in 28,97 milioni bpd, e riporta che i 10 membri dell’OPEC cui era stato chiesto di ridurre la produzione sono rimasti di 0,88 milioni bpd al di sotto dell’obiettivo. Aumenta il divario in seno all’organizzazione In seno all’OPEC si osserva un divario tra paesi capaci di aumenti importanti della produzione (Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e, in una certa misura, Iraq), e paesi che, invece, devono lottare già solo per mantenere il livello di produzione attuale: è l’eredità di anni di sottoinvestimento, soprattutto per Angola e Algeria, e, in alcuni casi, è l’eredità di problemi politici e di sicurezza, in particolare per Libia, Venezuela, Iran e Nigeria. In Kuwait è la politica interna a impedire investimenti adeguati nell’industria a monte, con conseguente e graduale calo della produttività; in Iran e Venezuela la produzione ha visto una lieve ripresa con l’allentarsi dell’applicazione delle sanzioni da parte degli Stati Uniti, mentre in Nigeria il neoeletto presidente Bola Tinubu e la recente approvazione del Petroleum Industry Act potrebbero contribuire a rivitalizzare l’industria a monte. Anche all’interno del gruppo principale, la società statale Saudi Aramco si sta cautamente adoperando per portare la propria capacità da 12 a 13 milioni bpd entro il 2027, ma senza fretta di andare oltre, mentre l’Iraq mira ad ampliare la propria attuale capacità, pari a circa 4,8 milioni bpd, fino a raggiungere i 7 milioni bpd, sempre entro il 2027: si tratta di un aumento fattibile per le risorse del sottosuolo iracheno, ma è di fatto reso quasi impossibile dalle condizioni d’investimento, sfavorevoli, oltre che dall’abbandono del paese da parte di diverse importanti compagnie petrolifere e dal conseguente e crescente predominio delle società cinesi, dalla lentezza delle trattative su nuovi progetti critici con la francese TotalEnergies, e, infine, dal ritardo delle infrastrutture per l’esportazione di petrolio, il trattamento del gas, l’iniezione di acqua e la produzione di energia. La regione semi-autonoma del Kurdistan, che contribuisce alla produzione totale dell’Iraq con circa 0,4 milioni bpd, è impegnata ad affrontare le proprie sfide interne, tra spaccature politiche, scontri costituzionali con il governo federale di Baghdad e un arbitrato che minaccia l’uso dell’oleodotto per l’esportazione del petrolio attraverso la Turchia. Diversamente, gli Emirati Arabi Uniti sono sempre più impazienti di dispiegare le proprie nuove risorse: la capacità attuale è di 4,2 milioni bpd e procede verso i 5 milioni bpd previsti entro il 2027 e forse, sul lungo termine, si spingerà fino a 6 milioni bpd, contro una produzione consentita di soli 3,019 milioni bpd. Tale situazione ha suscitato voci secondo cui gli Emirati Arabi Uniti, come riferito di recente dal Wall Street Journal, potrebbero considerare di uscire dall’OPEC, come già nel gennaio 2019 fece il Qatar, loro vicino. Quest’ipotesi al momento appare poco plausibile, ma è comunque un punto di negoziazione, dato che nel 2021 gli Emirati premevano per aumentare la produzione di base (quella su cui si calcolano i tagli) da 3,168 a 3,5 milioni di barili al giorno. Le tensioni latenti all’interno dell’Opec+ Le tensioni all’interno dell’OPEC+ riguardano la posizione della Russia. Con il crollo dei prezzi a fine 2014, l’OPEC (Arabia Saudita in particolare), ha compreso di non poter combattere sia contro i trivellatori di shale degli Stati Uniti sia contro Mosca. L’ingresso nell’alleanza della Russia e di altri importanti produttori non-OPEC tra cui Oman, Kazakistan e Azerbaigian, nel 2016, è stato un grandissimo risultato della diplomazia energetica. Dopo la breve interruzione avutasi nel marzo 2020 per il crollo della domanda indotto dalle misure di lockdown per la pandemia, l’alleanza OPEC+ ha avuto un ruolo determinante nel far risalire i prezzi ricorrendo a significativi tagli alla produzione. I paesi OPEC del Golfo apprezzano l’allineamento con la Russia: una gestione attiva del mercato petrolifero può essere necessaria in qualsiasi momento, la Russia è un attore importante in altri casi spinosi quali quelli di Siria, Iran e Libia, e l’alleanza con un paese in grado di fare da contrappeso agli Stati Uniti, percepiti come inaffidabili, è vista con favore. Ma il 24 febbraio 2022 l’invasione russa dell’Ucraina ha sconvolto il mondo dell’energia. Alle auto-sanzioni degli acquirenti europei ha fatto seguito il divieto assoluto di importare in Europa e Stati Uniti la maggioranza del petrolio e dei prodotti raffinati russi. Le spedizioni verso altre destinazioni non sono coperte né assicurate dal G7, salvo in caso di vendita al di sotto dei massimali di prezzo: 60 dollari al barile per il greggio, 100 dollari al barile per i prodotti raffinati ad alto valore quali il diesel, 45 dollari per l’olio combustibile pesante e per altri prodotti a basso valore. Della conquista delle quote del mercato europeo hanno beneficiato l’Arabia Saudita, in particolare, e anche l’Iraq, ma in generale i produttori OPEC del Golfo hanno dovuto affrontare una maggior concorrenza nei loro principali mercati di crescita, cioè l’India, che prima della guerra importava a stento qualche goccia di petrolio russo, e la Cina. I produttori OPEC del Golfo, come anche i loro tradizionali clienti asiatici, si trovano ora di fronte a un dilemma: questa situazione è uno shock temporaneo o diventerà uno stato di cose permanente? Quando le raffinerie potranno procedere a un upgrade infrastrutturale per gestire maggiori quantità di greggio russo, e dove i produttori OPEC del Golfo dovranno farsi più aggressivi per poter salvaguardare la propria posizione? Il greggio russo viene venduto all’Asia con sconti sostanziali e, date le distanze, con costi di spedizione elevati, ma i volumi delle esportazioni sono rimasti massicci e quindi, dopo i picchi iniziali, i prezzi si sono moderati. Per citare un esempio, gli Emirati Arabi Uniti hanno tratto vantaggio dall’importare greggio russo per la raffinazione (presumibilmente a prezzo scontato), e poter così liberare produzione per l’esportazione, e hanno tratto vantaggio anche dallo stoccaggio e miscelazione di petrolio di origine russa presso l’hub di Fujairah; nel frattempo, diverse società commerciali, tra cui nuove arrivate e anche società russe ribattezzate, si sono stabilite a Dubai. Nel febbraio 2023 il vice primo ministro russo e responsabile per l’Energia, Alexander Novak, annunciava che a partire da marzo la Russia avrebbe tagliato la produzione di 500mila bpd. In un certo senso, questa riduzione è stata ben accolta dai colleghi dell’OPEC, che in aprile hanno ricambiato attuando anch’essi dei tagli. Ma se più avanti, nel corso dell’anno, i mercati dovessero contrarsi in parallelo alla continua ripresa della domanda cinese nell’era post Covid, l’Arabia Saudita potrebbe ritenere giustificato un aumento della produzione, e allora dovrebbe fare i conti con il veto di Novak, il che porterebbe allo scoperto le tensioni latenti. Se i prezzi del petrolio dovessero salire bruscamente (a causa della Russia, della ripresa cinese o di altri fattori), gli Stati Uniti probabilmente riprenderebbero a far pressione. Nel luglio 2022 il presidente Joe Biden si è recato in visita in Arabia Saudita con la proposta di un minimo aumento della produzione, poi prontamente revocata tra furiose accuse da parte di Washington e minacce (da parte del Congresso più che di Biden) di azioni contro Riyadh quali la ripresa del NOPEC, l’annoso disegno di legge anticartello degli Stati Uniti. Alla fine, i prezzi sono scesi per effetto dell’indebolimento dell’economia mondiale, l’OPEC è stata in qualche modo assolta, e nelle elezioni di medio termine i democratici sono andati meglio del previsto. Non è tuttavia difficile immaginare un ritorno degli stessi dissapori nel corso di quest’anno. Le minacce geopolitiche Le minacce geopolitiche sono emerse chiaramente nel settembre 2019, con gli attacchi sferrati da droni e missili, probabilmente iraniani, contro le installazioni petrolifere saudite, che hanno provocato una temporanea perdita di produzione di 5,7 milioni bpd. Ma per una volta almeno, il conflitto in Medio Oriente è stato oscurato, prima dalla pandemia e poi l’invasione dell’Ucraina. I blocchi Emirati Arabi Uniti-Arabia Saudita e Turchia-Qatar hanno raggiunto la distensione, e finora la regione è riuscita a evitare le conseguenze della crescente tensione tra Cina e Stati Uniti. Nel frattempo, l’Iran continua ad aumentare il livello di arricchimento dell’uranio, e a un certo punto dovrà decidere se intraprendere passi ancor più minacciosi. L’accordo sul nucleare con gli Stati Uniti è moribondo, soprattutto a seguito della brutale repressione delle proteste diffuse iniziate nel settembre 2022, che continuano tutt’ora, pur se a livelli inferiori, e a seguito della più stretta cooperazione militare di Teheran con Mosca. Il nuovo governo israeliano, di estrema destra, fa sempre più minacciosa la propria retorica, e mentre combatte l’opposizione interna e intensifica la repressione contro i palestinesi, potrebbe anche farsi tentare da un diversivo. Le sfide energetiche mondiali a più lungo termine sono passate in secondo piano. La minaccia del picco della domanda di petrolio (l’inesorabile calo del consumo di petrolio dovuto all’adozione dei veicoli elettrici e di altre tecnologie non petrolifere, i prezzi del carbonio e gli altri incentivi contro l’uso del petrolio), si è allontanata di qualche anno. I paesi dell’OPEC hanno accolto con entusiasmo la rinnovata consapevolezza mondiale del loro ruolo di fornitori chiave per la sicurezza energetica. In particolare, l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti (che a novembre ospiteranno la COP28) sottolineano la necessità che quella energetica sia una transizione e non una rivoluzione, e promuovo utilizzi non emissivi per gli idrocarburi e i prodotti petrolchimici, promuovono l’idrogeno blu e la cattura e stoccaggio del carbonio. Ritengono che la loro base a basso costo, la bassa intensità di carbonio della loro produzione e le enormi riserve di cui dispongono li collochino in una posizione di forza. Con la Russia ostacolata dalle sanzioni e con gli Stati Uniti e varie società petrolifere occidentali che preferiscono restituire il denaro agli azionisti e perseguire la decarbonizzazione anziché darsi a nuovi grandi investimenti, la previsione dell’OPEC in generale (e i suoi principali membri in particolare) è di poter conquistare nuove quote di mercato anche in caso di calo della domanda complessiva. Le più solide tra le economie dell’OPEC pianificano il futuro espandendosi dal petrolio al gas e dal gas alle energie rinnovabili, all’idrogeno e, in alcuni casi, fino all’energia nucleare. I prezzi alti consentono alle economie più deboli una tregua che tuttavia, per la maggior parte, questi paesi sprecheranno, come già in passato. Robin Mills è membro del Center on Global Energy Policy presso la Columbia SIPA e amministratore delegato di Qamar Energy, che ha fondato nel 2015. In precedenza, ha svolto importanti incarichi di consulenza per l’UE in Iraq e per una serie di compagnie petrolifere internazionali sullo sviluppo del business in Medio Oriente, sulla generazione integrata di gas ed energia e sulle energie rinnovabili. [...]

- Amedeo La Mattina
La destra italiana vuole governare anche in Europa, ma non ha un’idea per il Paese

Si è spenta, per il momento, la polemica tra il governo italiano e il portavoce della Commissione Europea. A Bruxelles nessuno voleva sindacare su un provvedimento, in corso di approvazione, che elimina il controllo concomitante degli atti del Pnrr da parte della Corte dei Conti. È il classico e ipocrita fraintendimento. «Il caso è chiuso», getta acqua sul fuoco il ministro Raffaele Fitto, ma la versione non è quella di Palace Berlaymont né quella del ministro che tiene le redini del Pnrr. A Palazzo Chigi si parla apertamente di «pregiudizio non informato». Da parte di chi? A Roma c’è sempre il sospetto che a Bruxelles ci sia un nemico nascosto nella tecnostruttura, negli uffici della comunicazione, nei livelli politici apicali vicini ai Socialisti, in qualche commissario (Frans Timmermans, tanto per fare un nome che si troverà combattente nella campagna elettorale delle Europee). Paolo Gentiloni è un’altra storia, più legata all’Italia e alla moral suasion del Quirinale. Il capo dello Stato tutto vuole tranne che l’Italia fallisca gli obiettivi del Piano e garantisce in questo senso una copertura alla premier Giorgia Meloni. La stessa Ursula von der Leyen non è vista come una nemica. Ha un buon rapporto, anche personale, con Meloni, è stata con lei nelle zone alluvionate, ha promesso forti aiuti. E poi la presidente della Commissione, che fa parte del Partito popolare europeo, vorrebbe succedere a se stessa o rimanere nel giro alto dei vertici comunitari, ben sapendo che da Roma dovrà passare se cambia l’asse di potere con i Conservatori della Meloni e i Popolari. Poi ci sono i “cattivi”. Quel Timmermans che avrebbe radicalizzato il percorso della svolta ambientale, ha innervosito una parte dell’opinione pubblica dei Paesi europei, quella meno danarosa, sul passaggio green per auto e case. Il tema in generale sarà sicuramente uno dei cavalli di battaglia delle Europee. I “nemici” a Bruxelles, e in alcune capitali del Continente, sono quelli che faranno di tutto per evitare che si realizzi il ribaltone delle alleanze storiche, che i Socialisti vengano cacciati all’opposizione. Perché, come dice Silvio Berlusconi nell’intervista di ieri al Giornale, «la maggioranza fra popolari, liberali e socialisti, che ha retto le istituzioni europee per molti anni, ha fatto il suo tempo». Per il Cavaliere aveva un senso quando l’Europa era un accordo fra gli Stati, «e rappresentare nelle istituzioni europee tutte le grandi famiglie politiche dell’epoca ne garantiva una certa neutralità». Per Berlusconi invece l’Europa ha acquisito una soggettività politica autonoma e quindi «è diventato sempre più importante che la sua guida assuma una connotazione politica chiara. Tenere insieme forze che hanno visioni ed obbiettivi diversi porta solo alla paralisi o a soluzioni pasticciate». Peccato che Berlusconi, che ha sempre sperimentato alleanze larghe anche in Italia, dimentica di dire che l’intesa che immagina non intende spingere per una maggiore «soggettività politica», per un salto verso una vera federazione. A ostacolare il principio del voto a maggioranza sono proprio quei Paesi da cui arrivano i veti e hanno la visione più nazionalistica. Ci sarà semmai, in caso di una nuova maggioranza europea, un repulisti da spoil system in quelle tecnostrutture di cui parlavamo all’inizio e una sostituzione sistematica dei centri di potere e di controllo che potrebbero favorire Roma. Verrebbe soddisfatto in parte quell’istituto e quel sentimento che ha riempito di consensi prima la Lega di Salvini e poi Fratelli d’Italia. Non è detto che questo accadrà. Forse sono pie illusione che non tengono conto che, comunque, nel 2024 una commissione di centrodestra dovrà sempre fare i conti con due governi che saranno ancora in carica e di segno politico opposto, Germania e Francia. Non due Paesi baltici, con tutto il rispetto per loro. E poi c’è l’incognita spagnola (in troppi danno per morto il Partito Socialista di Pedro Sanchez). Ora, di fronte al «pregiudizio non informato» di Bruxelles, Meloni tira dritto e oggi fa approdare alla Camera il decreto sulla Pubblica Amministrazione, che ha in pancia la spuntatura di unghie della Corte dei Conti e l’abrogazione del danno erariale solo per dolo (e non per colpa grave). In settimana ci sarà con ogni probabilità il voto di fiducia e avanti come un carro armato, provando a far dimenticare il vero problema. A Bruxelles non sanno cosa voglia fare il governo italiano sul Pnrr, cosa proporrà di annullare per avere la terza e le ulteriori rate dei circa duecento miliardi del Recovery Fund destinati agli italiani. E qui non c’è alcun pregiudizio che tenga. Domani la Spagna comunicherà la sua revisione da novanta miliardi. Francia, Germania, Portogallo e Grecia hanno già presentato la loro. L’Italia ancora non pervenuta. La Commissione vorrebbe ricevere gli emendamenti già a giugno, mentre il governo sposata il termine 31 agosto. La netta sensazione è che questa maggioranza, che vuole governare anche l’Europa, non sia in grado di fare una scelta. I partiti che governano hanno obiettivi diversi, c’è una pletora di piccoli progetti da annullare nel territorio per la felicità dei comuni. C’è sopratutto la mancanza di un progetto complessivo del Paese, su come incanalare quel quasi cinque per cento di crescita prevista per i prossimi anni. E che senza gli investimenti del Piano possiamo dimenticare. È un Paese, il nostro, che cresce, addirittura meglio degli altri, a dispetto dei santi e della politica, perché c’è una fibra imprenditoriale robusta e un museo a cielo aperto che produce il boom del turismo. Meloni e i suoi ministri non hanno chiara la direzione di marcia. [...]

- Maurizio Assalto
L’ambiguo significato di democratura, il composto sincratico del nostro secolo

Il terzo mandato presidenziale di Recep Tayyip Erdoğan non aprirà forse «il secolo della Turchia», come ha dichiarato il “sultano” dopo la prevedibile vittoria al ballottaggio dello scorso 28 maggio, ma ribadisce a chi ancora ne dubitasse che questo è il secolo delle democrature. Un fenomeno col vento in poppa, dall’America Latina all’Europa dell’Est, all’Asia, all’Africa, i cui spifferi fanno rabbrividire anche le più consolidate democrazie occidentali. E una parola che va di pari passo, e sempre più riecheggia nel dibattito politico. Ma la cui intrinseca pregnanza in genere sfugge, nella lingua italiana come nelle altre che l’hanno importata dal suo idioma natale. Il vocabolario Treccani, registrandola come neologismo, la definisce: «Regime politico improntato alle regole formali della democrazia, ma ispirato nei comportamenti a un autoritarismo sostanziale» – e fin qui tutto bene (bene, cioè, limitatamente alla definizione) – aggiungendo però, dopo alcune citazioni giornalistiche, questa spiegazione: «composto dai s. f. democra(zia) e (ditta)tura; cfr. lo sp. democratura e il fr. démocrature». Quandoque bonus dormitat…: infatti il termine sp.(agnolo) non è “democratura” ma democradura, e oltre al fr.(ancese) perché non ricordare anche l’inglese democrature? Dettagli, non è questo il punto. Il punto è che chiunque qui da noi, ma anche in Francia o in Inghilterra, voglia dare conto del neologismo lo interpreta appunto come il composto sincratico additato dalla Treccani, “democrazia + dittatura”. Il che funziona sicuramente in questi Paesi, per come il vocabolo è stato recepito nelle relative lingue, ma non ne rispecchia l’origine e il sottostante evocativo gioco di parole. Perché il termine democradura è nato allo sbocco di un processo linguistico (e organizzativo-statuale) che ha preso le mosse nella Spagna travolta dalle ripercussioni mondiali del crollo di Wall Street del 1929. Nel tentativo di stemperare le tensioni, all’inizio del 1930 il re Alfonso XIII sostituì alla testa del governo il dictador Diego Primo de Ribera con un altro generale, Dámaso Berenguer, che subito provvide ad abrogare alcuni dei provvedimenti più autoritari varati dal suo predecessore. Giocando sul suffisso del sostantivo deverbale “dictadura”, reinterpretato come aggettivo dal significato identico al corrispondente italiano, si passò così da una forma dittatoriale dura a una più morbida, nella quale almeno le libertà civili (habeas corpus, inviolabilità della proprietà privata, libertà di parola e di movimento, diritto alla difesa in un processo giuridicamente corretto ecc.) erano garantite: da dictadura a dictablanda. In un articolo uscito il 17 febbraio 1931 sul quotidiano La Libertad, intitolato “Dictablanda… dictadura”, il giurista Luis Jiménez de Asúa dell’Università Centrale di Madrid spiegava che «il governo Berenguer ha continuato il regime dittatoriale. Ma i suoi modi erano dapprima più cortesi, e il presidente ripeteva in ogni occasione che era venuto per “pacificare gli animi”». Nel medesimo articolo l’invenzione del neologismo era ascritta al poeta José Bergamín, sebbene l’attribuzione resti dubbia, perché il termine compare anche in una vignetta del disegnatore satirico catalano Luis Bagaría pubblicata il 12 marzo 1930 sulla prima pagina del giornale El Sol. Quale che sia la reale paternità, la parola si diffuse nei Paesi di lingua castigliana – generando altresì diverse variazioni lessicali sul tema (dictafuerte/dictadulce) – a designare regimi come quello instaurato nel 1933 in Uruguay con il colpo di stato di Alfredo Baldomir o quello imposto nella Colombia degli anni Cinquanta dal generale Gustavo Rojas Pinilla, la settantennale permanenza al potere del Partito Rivoluzionario Istituzionale in Messico (1929-2000), l’ultima fase del franchismo in Spagna. Perfino il generale cileno Augusto Pinochet, sul finire della sua parabola dittatoriale, pretendeva di poterla qualificare come dictablanda, mentre la versione del termine nell’idioma portoghese, ditabranda, è stato utilizzato in anni più recenti, non senza suscitare vivaci reazioni polemiche in Brasile, in relazione al regime militare che ha dominato il Paese tra il 1964 e il 1985. Se la dictablanda era (o pretendeva di essere) qualche cosa di più morbido della dictadura, il gradino ulteriore (o presunto tale) nella scala della morbidezza poteva fare a meno dell’aggettivo blanda e ardire la sincrasi con la parola democrazia. Ma, per compensare la fuga in avanti e prudentemente rispettare il principio di gradualità, doveva trattarsi di una forma di democrazia che conservasse la durezza, sia pure da ultimo ammorbidita, delle fasi precedenti, una democrazia dura: appunto, una democradura. Anche nel caso di questo neologismo non è facile indicare con certezza l’inventore, perché certe parole fluttuano nello spirito del tempo e può accadere che vengano intercettate indipendentemente qua e là – per esempio il saggista croato Predrag Matvejević (1932-2017) sosteneva di averla coniata, ovviamente non nella forma spagnola, «per definire l’ibrido tra democrazia e dittatura» dei regimi post-comunisti balcanici e dell’Europa orientale. Più attendibile è l’attribuzione a Eduardo Galeano (1940-2015), lo scrittore uruguayano di Splendori e miserie del gioco del calcio, che in un libro di molti anni prima, Le vene aperte dell’America Latina (1971), ribaltando il gioco linguistico alla base di dictablanda, aveva usato il termine democradura per denunciare «il riciclarsi delle dittature sotto forma di finte democrazie». (Notiamo di sfuggita che al termine democratura può essere accostato un altro neologismo, di cervellotica origine angloamericana e di circolazione fortunatamente limitata: anocrazia – risultante dal greco kratía, potere, suffissato dall’alfa privativa – che indica un regime in cui un soggetto detiene il potere in assenza di un quadro legislativo garantito e prevedibile. Formazione lessicale orrida e morfologicamente indifendibile, in quanto la consonante n dopo l’alfa privativa si introduce soltanto quando è seguita da vocale, e in questo caso la vocale o spunta senza alcuna ragione come un fungo – velenoso – a combinare una parola che, più che alla scienza politica, fa pensare a prevaricanti ossessioni omoerotiche). A volte durissima, tanto da non potersi realmente distinguere dalla dictablanda, la democradura è comunque tale da rappresentare uno step lessicale e istituzionale successivo. Il passaggio dalla dictadura alla dictablanda e quindi alla democradura e alla democrazia consolidata, attraverso una fase intermedia di transizione, è stato teorizzato in vari lavori dal politologo argentino Guillermo O’Donnell (1936-2011), in particolare nel monumentale saggio Transitions from Authoritarian Rule. Prospects for Democracy, curato con Philippe Schmitter e Laurence Whitehead e pubblicato in quattro volumi dalla Johns Hopkins University Press nel 1986. Ma attenzione, il processo non è irreversibile. Ancora Matvejević, nei suoi ultimi anni, percepiva indizi di democrature nella ricca ma inquieta Europa occidentale. E in Italia Giovanni Sartori (1924-2017), un maestro della scienza politica, usava la parola per designare quelle forme degenerative di democrazia rappresentativa che, sconfessando il garantismo costituzionale e con mirati interventi sulle leggi elettorali, aprono la via alla “dittatura della maggioranza”. Un monito inascoltato. [...]

- Giovanni Ferrario
L’amaro migliore del mondo è ligure

La maturità alla soglia dei cento anni. Amaro Camatti è stato appena nominato il migliore di tutto il mondo e sta vivendo una sorta di “seconda giovinezza” proprio appena prima di arrivare allo storico traguardo del secolo di vita. A mettere l’infuso ligure sul tetto del mondo è stato il sito specializzato TheDrinksReport.com che da anni organizza i World Liqueur Awards, una sorta di Oscar delle bevande alcoliche. Camatti si è aggiudicato il titolo di miglior amaro del mondo, di miglior liquore alle erbe d’Italia e la medaglia d’oro tra gli amari italiani. Un tris che mette l’azienda che produce nell’entroterra ligure tra quelle più in vista nell’intero panorama mondiale e che è un bell’antipasto delle celebrazioni previste nel 2024 per il centesimo anno di vita. Tra gli altri italiani, medaglia d’oro anche per l’amaro Gran Sasso Paesani; c’è gloria anche per l’Amaro Ilex (miglior digestivo al mondo), la Sambuca Vecchia Sarandrea (categoria Anice), l’Amaro San Marco Sarandrea (“Herbal”), la vodka al caramello salato Love Kamikaze (“Patisserie/Bakery”), il Kranebet Botanic Gin Liqueur (“Gin”) e Black Sinner (“Coffee”). Correva il 1924. Mentre negli Stati Uniti si era in pieno Proibizionismo, in Italia, e più precisamente a Genova, il chimico e farmacista Umberto Briganti (toscano ma ligure di adozione) creava il suo amaro, dedicandolo alla moglie, Teresa Camatti. La ricetta, rimasta identica e non ancora svelata per intero, prevede un’infusione di erbe, fiori e radici aromatiche, tra cui arancio amaro, china, menta, genziana e mandorlo. Insieme al fratello Cesare, Umberto produce nell’entroterra di Recco, riscuotendo buon successo: anche la gestione familiare dell’azienda è un segno distintivo del Camatti, che perdura ancora adesso nonostante il passaggio di consegne, avvenuto nel 1989 quando a subentrare è la Sangallo Distilleria delle Cinque Terre di Giovanni Bergamino, nonno di Stefano, attuale proprietario con il socio Marco De Marchi. View this post on Instagram A post shared by Amaro Camatti (@amarocamatti) In (quasi) cento anni di attività, la produzione si è fermata solo nell’ultima parte della Seconda Guerra Mondiale, quando i tedeschi, insediatisi nel Nord Italia, presero possesso dell’impianto per le proprie attività belliche. Lo stabilimento, che ora è a San Colombano Certenoli, sempre nelle montagne che avvolgono il golfo del Tigullio, si sta espandendo e seguendo un processo di rinnovamento che va di pari passo con quella che può essere considerata una seconda vita anche dell’amaro. Pur mantenendo una propria identità (anche l’etichetta è rimasta quella originale), i riconoscimenti ottenuti ai World Liqueur Awards fanno il paio con l’aumento delle vendite: l’avvento della mixology ha rinnovato la clientela, che ora va dallo storico affezionato, soprattutto in Liguria, ai giovani, che lo sorseggiano liscio o nei diversi cocktail concepiti all’occorrenza. Un incremento che sta portando il Camatti anche in tutta Italia e oltre, finanche a solcare gli oceani, negli States o in Australia. A Monaco di Baviera, tra l’altro, un appassionato ha creato di sua spontanea volontà un bar che porta il nome dell’amaro, come segno di predilezione e “devozione”. [...]

- Chiara Buzzi
Highlights e considerazioni dopo l’appuntamento di Roma Bar Show

L’anno scorso avevamo ironicamente intitolato «Se ne riparla dopo Roma Bar Show» l’articolo di racconto alla tanto attesa manifestazione che si è svolta anche quest’anno, al Centro dei Congressi dell’EUR di Roma il 29 e 30 maggio, dedicata al mondo degli spiriti e al settore miscelazione. All’incirca è stato così anche quest’anno, perché nel mondo della notte e dei cocktail bar l’impatto è sempre talmente elevato che occorrono circa 48 ore se non di più per poter tornare alla normalità. Una prima giornata che ha visto un’affluenza in massa di professionisti provenienti da tutto il mondo, da tutta Italia, locali chiusi per un giorno perché tutto il team si è trasferito in capitale per vivere l’energia travolgente di un settore costantemente in crescita. La grande differenza di questa edizione è stata la miscelazione stessa, proposta questa volta in maniera molto più frequente, estensiva e totalmente gratuita in moltissimi stand. Indubbiamente il modo migliore per capire liquori e distillati ma potenzialmente un’arma a doppio taglio se non supportata da adeguanti contenuti e argomentazioni. Se vogliamo anche con una certa coerenza di fondo, il brand con il punto bar più significativo e nessuna remora sull’importanza della bottigliera è risultato anche essere il centro più interessante di produzione di informazioni, contenuti, progettualità, intenti. Luca Gargano e la sua Velier SpA ancora una volta sparigliano le carte in quanto a messa a terra di un pensiero – quello visionario e instancabile  del suo proprietario – con azioni uniche e umanamente cariche di pathos. Non basta più la guest, il bartender internazionale che per un paio d’ore presta i suoi servigi per un semplice shift utilizzando questo o quel brand nelle sue ricette ma una visione più alta, parallela e ancora nuova per molti colleghi. Per la prima volta al Roma Bar Show l’alta cucina si è fusa all’alta miscelazione (considerando l’alto in questo caso come l’eccellenza nazionale) perché alcuni degli chef più noti e attivi del panorama italiano si sono ritrovati a dialogare con bartender illuminati in uno spazio chiamato per l’occasione Extra Perimetral. Letteralmente fuori dal perimetro del bar, un luogo dove il distillato fa da guida alla conversazione e diventa il protagonista tanto delle ricette dello chef quanto del bartender, non necessariamente chiamato a realizzare un pairing ma piuttosto trovare punti di connessione, aprire nuovi livelli di lettura di comprensione di un piatto piuttosto che di un drink. Chi è passato sul palco? Carlo Cracco & Edoardo Nono (Rita Cocktails), Corrado Assenza (Caffè Sicilia) e Alex Frezza (L’Antiquario), Salvatore Salvo (Pizzeria Salvo) e Oscar Quagliarini , Gianluca Gorini (Ristorante daGorini) & Jimmy Bertazzoli (Aguardiente), Paolo Brunelli e Angelo Canessa, Jacopo Mercuro (180 grammi) & Gregory Camillo (Jerry Thomas Bar-Room), infine Nicola Zamperetti (Giano Restaurant) & Emanuele Broccatelli (Machneyuda Group). In contemporanea, la Velier Arena ha ospitato una serie di interventi e masterclass più dedicate al settore dove produttori, bartender e importatori si sono potuti confrontare a ruota libera su alcune delle tematiche più calde del momento. A guidare filologicamente tanti degli altri progetti presenti in fiera è un tema fortunatamente sempre più cercato e sempre più affrontato anche dai marchi più affermati ovvero quello della formazione. Prima su tutti l’attività di Campari Accademy che, con un’attenzione specifica al settore e un ampio ventaglio di contributi anche legati alla psicologia del cliente, agli andamenti di mercato e al coaching dei professionisti a più livelli e contesti, sta contribuendo a riscrivere i canoni di una professione fino a qualche tempo fa troppo poco valorizzata. Denso il calendario di lezioni tenute in fiera, da tanti professionisti di settore con temi diversi, più o meno tecnici, sulle correnti di miscelazione, gli stili, la merceologia e ovviamente, il momento celebre per ogni italiano: l’aperitivo. Significativa la presenza del mondo agave, che quest’anno si è spostato sulla terrazza del Centro dei Congressi occupando quasi mille metri di stand e una incredibile affluenza di micro produttori di tequila, mezcal, sotol, pulque, raicilla, bacanora. Secondo IWSR, il più autorevole istituto di studio sui trend di consumo spirits mondiale, entro la fine del 2023 i distillati di agave saranno i prodotti più venduti negli Stati Uniti. Di questo si è estensivamente parlato durante una delle talk più importanti tenutesi nell’Auditorium cui hanno partecipato tequileros da tutto il mondo e rappresentati in Italia da Roberto Artusio e Christian Bugiada de La Punta Expendio de Agave. E tra un incontro e l’altro, l’attenzione all’ambiente e al pianeta è sempre più tangibile: aumentano i prodotti ad impatto zero, inizia a prendere piede la stampa 3d con materiali biodegradabili, gli spiriti alcool free e tutto quello che interessa le tematiche di sostenibilità sempre più care a molti brand e oggi come oggi presenti nel lavoro quotidiano di tanti cocktail bar. Come evolverà la miscelazione del futuro con questi presupposti? Il costante lavoro di miglioramento delle condizioni lavorative dei bartender così come la costruzione di professionalità verticali e definite va verso una crescita di risultati, awareness e appeal del settore. Speriamo che anche l’Italia, con la sua incredibile cultura del buon bere, sappia stare al passo di questo grande movimento. Tutte le immagini courtesy Roma Bar Show [...]

- Serhiy Sydorenko
Які наслідки матиме саміт у Молдові для Києва та Кишинева

“Цей саміт був не про НАТО, але ми це питання підіймали”, – заявив Володимир Зеленський перед переповненим конференц-залом у молдовському комплексі “Фортеця Мімі”, де щойно завершився саміт за участю 50 європейських лідерів. І справді, на цій зустрічі взагалі не повинно було йтися про Альянс – але за фактом там пролунало кілька заяв, які “на пів кроку” наблизили Україну до членства в НАТО. І так само можна говорити про інші теми. Це був саміт “не про літаки”, але на ньому оформилася коаліція з восьми країн Європи, що братимуть участь у постачанні F-16, і вона ще може розширитися. Це був саміт не про системи ПРО, але ті перетворилися на одну з головних тем заяв Зеленського у контексті зустрічей із західними партнерами, та уперше пролунала ідея створення “коаліції Patriot”. І нарешті, більш прогнозовано: для Молдови ця подія також стала “самітом про Придністров’я”. Нарешті дійшло до заяв, що Придністров’я – це земля під російською окупацією. Це уперше почали публічно визнавати ключові держави Заходу. Та й саміт символічно зібрали на кордоні зони окупації. А Зеленський нарешті офіційно позначив позицію про можливість участі ЗСУ в його деокупації та нарешті офіційно “вбив” російський формат переговорів про придністровське врегулювання. Словом, саміт Європейської політичної спільноти цілком природно перетворився на такий собі “пан’європейський безпековий саміт”. І як завжди буває у питаннях безпеки, зустріч лишила кілька незакритих питань. Наприклад, щодо Ердогана. Про результати зустрічі лідерів “Європейська правда” вже розповіла у відеопоясненні з фортеці Мімі, де відбувалася ця подія, та запрошує вас до перегляду. Але також ми підготували більш детальну текстову статтю про це. Під захистом НАТО та ЗСУ. Для Молдови питання співпраці з Альянсом досі є таким, що розділяє суспільство. Це не дивно, зважаючи на те, що багато років поспіль роспропаганда поширювала “лякалки” про НАТО, і досі це робить. Щоб не дратувати суспільство, навіть нинішня прозахідна влада уникає заяв про Альянс (детальніше читайте в нещодавній статті ЄП “Чому Молдова не хоче йти до НАТО“). Утім, коли дійшло до проведення у Молдові саміту, на який зібралися лідери майже пів сотні держав і керівництво Євросоюзу – стало не до умовностей, і Кишинів звернувся за допомогою саме до Альянсу. На патрулювання повітряного простору Молдови виділили натовський літак AWACS, а за кілька тижнів до зібрання у Молдові почалися тренування військових гелікоптерів держав НАТО. А як інакше діяти, якщо Молдова не має власної спроможної армії? І навіть з силами правопорядку виявилося не все добре – поліції не вистачало, що часом призводило до комічних ситуацій. Однак не лише Альянс гарантував безпеку саміту та країни загалом. І президентка Санду, й інші посадовці визнавали: у цьому Молдова зобов’язана передусім Україні. Бо без героїчного опору ЗСУ торік Республіка Молдова могла взагалі припинити існування. Зокрема, через це Володимир Зеленський був настільки бажаним гостем зібрання у Бульбоаці. Санду прийняла його першим і не виходила зустрічати інших гостей, доки не провела переговори з українським президентом. Чи були ці короткі, 15-20-хвилинні переговори, суто жестом уваги, чи там домовлялися також про чутливі речі? Радше перше. Але треба визнати, що від Володимира Зеленського за підсумками саміту прозвучали також довгоочікувані заяви, що офіційно закрили сторінку непорозумінь між Україною і Молдовою щодо надважливого питання Придністров’я. Хоча російська пропаганда намагалася це зіпсувати навіть просто під час візиту. ЗСУ в Придністров’ї: про що насправді говорили на саміті. Ближче до завершення дня частина інформаційного простору буквально вибухнула повідомленнями про те, що Мая Санду нібито публічно оголосила про згоду Молдови на доступ ЗСУ на свою територію для “зачистки” Придністров’я. Наводилася розлога (хоча й дивна) цитата президентки з обґрунтуванням цього рішення. От тільки ця новина була абсолютним фейком, придуманим від початку до кінця. Заяв Санду з цього приводу не було взагалі!Цей фейк з’явився на телеграм-каналах з поширення російських наративів, таких як “Гагаузская республика”, далі його радо підхопили російські пропагандистські ЗМІ та політики, а також, на жаль, у це повірили українські телеграм-канали і навіть деякі ЗМІ, які не переймаються перевіркою фактів. Розголос виявився таким, що проти ночі адміністрація Санду виступила із заявою-спростуванням, а Зеленському довелося здивовано відповідати на запитання журналістів про це. Між тим ця історія та ця відповідь президента дозволили поставити крапку у важливому питанні. Зеленський запевнив: Україна не проводитиме військову операцію у Придністров’ї, якщо лише про це не попросить Кишинів. Ця заява українського президента поставила крапку у дискусіях про можливість односторонніх дій Києва проти групи військ РФ на лівому березі Дністра. Ні, цього не буде. За даними ЄвроПравди, до цієї позиції Київ прийшов вже деякий час тому, офіційний Кишинів про це знає – а тепер обіцянка Зеленського стала публічною. ЄвроПравда раніше розповідала, що думки про можливість таких військових дій справді були в Києві торік, на початку повномасштабної російської агресії, але зараз можна остаточно говорити про “закриття” цього сценарію (до слова, якщо хочете розібратися у ситуації глибше – радимо детальну статтю ЄвроПравди “Настав час ліквідувати Придністров’я. Як для цього має і як не може діяти Україна“). Ще одна етапна заява президента на саміті стосується формату міжнародних переговорів про так зване “придністровське врегулювання”. Зеленський оголосив про смерть чинного формату “5+2”, і цю заяву можна лише вітати. А головне – те, що за обома позиціями думки Києва і Кишинева збігаються. Не тільки F-16 Утім, головні безпекові питання стосувалися не Молдови і не фейків про Придністров’я, а цілком реальних та нагальних потреб України. Володимир Зеленський почав візит зі згадки про чергову ракетну атаку РФ, яка призвела до загибелі цивільних киян, і вперше виступив з ідеєю про те, щоб західні союзники розпочали створення “коаліції Patriot”, тобто об’єднання держав, які працюватимуть над постачанням Україні не будь-яких, а саме цих систем ПРО. “Чому “Патріоти”? Бо вони здатні збивати усі типи російських ракет. Ось і все. У нас багато інших систем, але “Патріоти” – це “Патріоти”, – пояснив президент. Як не дивно, вже на першій зустрічі ця ідея України знайшла підтримку. Зокрема, прем’єр Нідерландів виступив із заявою про те, що Україні потрібно більше систем Patriot. Однак чи буде створена саме “коаліція”, до якої закликав Зеленський – відповіді наразі немає. Над втіленням цієї ідеї, що публічно прозвучала у Молдові уперше, Києву ще треба працювати. Набагато більше ясності – у питанні постачання літаків. Після завершення переговорів дипрадник президента Ігор Жовква оголосив про оформлення іншої європейської коаліції – тієї, що буде опікуватися постачанням до України винищувачів, і не лише F-16. Те, що Україна у пошуку літаків для постачання вийшла за межі однієї моделі, тобто F-16 – напевно, головна новина цієї домовленості. І вона дозволила суттєво розширити перелік країн, що зголосилися постачати техніку Україні. “Оформилася основа європейської частини коаліції за участю… Великої Британії, Нідерландів, Польщі, Данії, Швеції, Бельгії, Португалії і Франції. З президентом Франції навіть ухвалено окрему спільну заяву з цього приводу”, – заявив Жовква, наголосивши, що кількість держав, що планують долучитися до цієї коаліції, повинна додатково зрости. До слова, джерела ЄвроПравди у Франції підтверджують: у делегації Макрона справді вважають історичним і надважливим рішення про долучення країни до “коаліції винищувачів”; напевно, буде йтися про постачання літаків європейського виробництва EuroFighter. Утім, детально оцінити внесок буде можливо після того, як на наступній зустрічі у форматі “Рамштайн” партнери оголосять про обсяги та терміни постачання. Недомовки саміту. А от щодо НАТО зустріч у Молдові не дала багато нової ясності, але більш чітко позначила позицію щонайменше двох кран. Румунія підписала письмову декларацію щодо підтримки нашого руху до членства. І, що важливіше, Нідерланди встали на бік України. Підтримка цієї впливової західноєвропейської держави – справді важливий здобуток. Прем’єр Нідерландів Марк Рютте оголосив, що саміт у Вільнюсі окреслить шлях України до НАТО, хоч і не запропонує членство. Але у загальних рисах це збігається з тим підходом, про який просить партнерів Україна. Звісно, саміт у Молдові не дав усіх відповідей, а деякі запитання лише створив. Наприклад, однією з головних інтриг стало те, чому президент Туреччини Ердоган, який довго думав над поїздкою у Молдову і зрештою, за пару днів до саміту, підтвердив свою участь, в останній момент передумав і не приїхав. Але тут лишається хіба що спекулювати щодо чи то здоров’я, чи то політичних мотивів, бо переконливого пояснення Туреччина не надала. Інша інтрига – медіа балканських держав збудив епізод за участю Зеленського, інформація про який лише випадково стала надбанням журналістів: йдеться про не передбачену програмою зустріч українського президента з лідером проросійської Сербії Александаром Вучичем після церемонії фотографування. Про що саме вони говорили – лишається невідомим. Але поза тим, загальне враження: зустріч лідерів, яку уряд Молдови організував на винарні “Мімі” поблизу межі Придністров’я, виявилася успішною. І для Молдови, і для України, і для безпеки усієї Європи. Матеріал друкується у співпраці з Європейською правдою  [...]

- Adriana Castagnoli
L’altro gas russo, il Gnl sfuggito alle sanzioni

Nel febbraio 2022 la Russia era il più grande esportatore di gas al mondo prima degli Stati Uniti e del Qatar. A differenza dei suoi concorrenti, tre quarti delle sue esportazioni di gas erano concentrate in un unico mercato: l’Europa. Dopo l’invasione dell’Ucraina, il flusso del gas russo tramite i gasdotti verso l’Europa è rapidamente diminuito, tanto che a metà settembre 2022 si è attestato al di sotto del 20 per cento dei volumi giornalieri medi del 2021. Al contrario le esportazioni russe gas naturale liquefatto (GNL) in Europa non solo non hanno smesso di fluire, ma nei primi otto mesi del 2022 sono aumentate del 15 per cento rispetto allo stesso periodo nel 2021. Mosca è divenuta il quarto più grande esportatore mondiale di GNL. Nel 2022 circa il 78 per cento di GNL russo è andato a Paesi che avevano imposto qualche tipo di sanzione contro il Cremlino. Né gli esportatori russi Gazprom e Novatek né il gas GNL russo sono stati sanzionati dagli alleati occidentali. Mosca ha fornito all’Europa circa 17 milioni di tonnellate di gas naturale liqueatto l’anno scorso, in crescita di circa il 20 per cento rispetto ai volumi del 2021, secondo i dati di Refinitiv Eikon, compensando almeno in parte il forte calo delle esportazioni di gas attraverso i gasdotti russi. La Francia ha aumentato le sue importazioni di GNL da Mosca tanto che, a febbraio e marzo, è diventata il più grande importatore di GNL russo per quei mesi superando il Giappone. Anche Spagna, Belgio e Paesi Bassi hanno aumentato le loro importazioni di GNL dalla Russia, mentre l’Italia e il Portogallo hanno occasionalmente importato GNL russo nel 2022. Nel 2021 circa il 54 per cento del GNL russo era diretto verso il nord-est asiatico, storicamente il più grande importatore di questo gas. Cina, Giappone, Corea del Sud e Taiwan hanno tutti contratti a lungo termine con i fornitori russi di GNL. Nell’attuale scenario geopolitico la dipendenza dal GNL russo comporta il rischio che le forniture energetiche vengano utilizzate come strumento di ricatto. Per ora, Gazprom, Novatek e il Cremlino sembrano aver ottenuto una vittoria mantenendo intatti i ricavi delle vendite globali di GNL. Nel caso le relazioni con i Paesi importatori dovessero deteriorarsi ulteriormente, la Russia potrebbe annullare i loro contratti di GNL, co- stringendoli ad acquistare sul mercato spot, e rivendere il GNL ai Paesi “amici” ottenendo un importante ricavo politico nei Paesi in via di sviluppo. Alla fine del 2022, le esportazioni di gas del gasdotto russo verso l’Asia hanno quasi eguagliato per la prima volta le esportazioni verso l’Europa. La Russia ha già annunciato piani per collegare la sua rete di gas occidentale, che serve principalmente l’Europa e l’Asia centrale, con i mercati asiatici, offrendole flessibilità per il flusso di gas tramite gasdotto sia a ovest che a est. Nel 2021, in Asia la Russia ha venduto circa 30 miliardi di metri cubi di gas rispetto ai 155 miliardi di metri cubi ai Paesi dell’UE. Sakhalin fornisce due terzi del GNL all’Asia, mentre Yamal LNG nella Siberia nord-occidentale fornisce il resto del GNL. Mosca gestisce un sistema di gasdotti autonomo nella Siberia orientale. Il Power of Siberia 1 (PS1), iniziato nel 2019, e che raggiungerà la massima capacità entro il 2025, ha consegnato 15,5 miliardi di metri cubi alla Cina nel 2022. C’è un accordo per ulteriori 10 miliardi di metri cubi di fornitura a Pechino attraverso il gasdotto “dell’Estremo Oriente” (PS3). Infine, a marzo 2023, Vladimir Putin e Xi Jinping hanno raggiunto un accordo sul gigantesco progetto del PS2 che dovrebbe passare attraverso la Mongolia ed essere completato nel 2030. La cooperazione commerciale ed economica è divenuta una priorità nei rapporti tra Russia e Cina. Ma ci sono dei caveat: innanzitutto, va ricordato che occorrono circa dieci anni perché un gasdotto raggiunga la piena capacità, almeno con l’attuale tecnologia. Inoltre, almeno in termini di entrate, come mostra il caso di PS1, le forniture di gas da gasdotto alla Cina forniscono profitti molto inferiori rispetto alle esportazioni verso l’Europa. Infine, l’obiettivo di Pechino è la sicurezza energetica, e questo implica un portafoglio di importazioni diversificato. La Cina ha recentemente firmato un numero considerevole di nuovi contratti GNL a lungo termine con vari esportatori di GNL, tra cui Stati Uniti e Qatar. La strategia di esportazione di GNL della Russia è emersa molto prima dell’inizio della guerra in Ucraina e ha formalmente preso il via con l’approvazione della legge sulla liberalizzazione del GNL entrata in vigore nel dicembre 2013. In caso di un accordo di pace, la Russia sarà ancora più motivata a diversificare e a orientarsi verso i mercati globali del GNL. Se tale cambiamento dovesse verificarsi, Mosca potrebbe avere circa 80 milioni di tonnellate all’anno (mtpa) di capacità di esportazione di GNL e la sua capacità incrementale di GNL rappresenterebbe circa la metà della capacità del gasdotto verso l’UE. Tuttavia, la capacità della Russia di realizzare i progetti di GNL dipende dall’accesso ai finanziamenti e alle tecnologie occidentali che è limitato dall’attuale regime sanzionatorio che rallenta questi potenziali progetti. Mosca sta cercando comunque di sviluppare una propria tecnologia di liquefazione del GNL, che ha ricevuto un sostegno esplicito nella “road map” del governo sulla localizzazione di apparecchiature energetiche di importanza critica per progetti GNL di media e grande scala. Il Cremlino sta negoziando anche con la Turchia e l’Iran per non meglio chiarite attività congiunte nel mercato europeo e nei mercati del Pakistan e dell’India. Non è chiaro neanche come possa creare un’infrastruttura corrispondente nelle condizioni di sanzioni. Ma cruciale è il ruolo della Turchia come Paese di transito. Se la maggior parte del gas del gasdotto russo fosse consegnato attraverso la Turchia, il nuovo accordo non sarebbe molto diverso dalla posizione di quasi monopolio detenuta dall’Ucraina in passato. La Turchia prevede già di chiedere uno sconto del 25 per cento sulle forniture di gas russo. Tuttavia, dato che una delle “stringhe” di questo gasdotto serve l’Ungheria, è probabile che venga utilizzato quasi a pieno regime, tranne che le esportazioni verso l’Europa vengano interrotte. Da “Terre di mezzo” di Adriana Castagnoli, Il Sole 24 Ore, 157 pagine, 16,90 euro. [...]

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